Fiaba 106 – Il fratello trasformato in agnello (O kunto mon arnai)

IL FRATELLO TRASFORMATO IN AGNELLO (O kunto mon arnai = Il racconto con l’agnello), versione senza titolo nel manoscritto raccontata da Losa Gaetana a Martignano, il 10 ottobre 1885, e raccolta da V. D. PALUMBO.

            Lo sviluppo esile e sommario della nostra versione contiene la trama fondamentale di una fiaba molto diffusa, del tipo 450 dell’indice AARNE-THOMPSON. CALVINO, che riporta nella sua raccolta una versione siciliana (178), nota di aver trovato di questa fiaba solo versioni infantili e rudimentali.

            Altri esempi sono contenuti in STOMEO (5), LA SORSA (Vol. I, Serie III, 8), che riporta un testo di Poggio Imperiale, D’ARONCO (451 a), LO NIGRO (p. 74).

            Il motivo del fratello trasformato in agnello è presente in alcune fiabe greche (MEGAS, I, 13; LOUKATOS, p. 94); più somiglianti alla nostra storia sono però la fiaba russa Sorellina Elenuccia, fratellino Giovanni (AFANASJEV, p. 107) e Fratellino e sorellina della raccolta dei GRIMM (11).

            Una redazione letteraria che presenta una trama simile, ma differisce in numerosi particolari, è la novella Ninnillo e Nennella del Pentamerone (V, 8).

 

O KUNTO MON ARNAI

 

scvrivano rimpicciolito        Io’ mia forà mia mana ce diu pidia, ena’ pidì ce mia kiatera. Ce tui mana os pèsane. Ce tui io’ rikka ja proprietària, ce minan essu mia’ tsia. Depoi piàkane ce ris efane o rùchotto a tèise, depoi tâguale p’essu. Depoi ipe: – Ammaste ce vrìkete fsumì mi telìsete na stasùtesta ‘ttossu.

            Depoi tui vasta in allakai ce cino èbbie ena’ martiddhutsi, ce io’ scimona. Epìrtane ‘mpì ‘s ena’ ticho, tui kàise c’ènnise, ce tuo eskàsinne mo martiddhai ‘cimesa: c’ìvrike ena’ sakkon alevri. Depoi piàkane ce pìrtane sti’ tsia, o kàmane fsumì ce o fane. Depoi, tapu o spiccèfsane, mapale: – A’ ce vrìkete addho ce dellaste.

            Tuo adreffò sti’ stra’ ìsele na pi. Depoi èbbie c’iche ena’ kristianò; c’ìbbie ipe: – Umme, dòkottu na pi tunù pedai -. Ipe cino: – Mi pi ‘ttossu ejurizis animali, ce mi pi ‘ttossu ejurizi krusafi -. Cino èbbie c’èbbie ecessu pu jurizi animali. Depoi èbbie cino ce jùrise enan arnai c’ìbbie kulusonta in adreffì pu ‘mpì. Eftàsane ‘s enan grado strada c’ìvrike ena’ signoro mea, ce rmasti c’in èbbie ja jineka, ipirtan èssutu. Stàsisa poddhì ceròn oli ce diu ce mon adreffò arnai.

            Èbbie sto’ kalò cerò tuo pirte sti’ kàccia ce pirte tui tsia tunì èssuti, ce uso spidi tunìs kiatera este pròbbio stin agra tis tàlassa; ce usi kiatera este ‘facciata sti’ barkunata. Èbbie ce rispùndifse e tsia, c’ipe: – Mu di utta rucha pu vastà panu? – Ipe cini: – Ka sa dio -. Èbbie is ta doke, in atsìkkuse c’in ebbèjase sti’ tàlassa ce tui ndisi fs’itta rucha pu i’ doke.

            Poi èbbie ce pirte àndratti essu c’ipe: – ‘Sù ise mavri. – ‘Faccefti lio sti’ barkonà, – ipe cini. Depoi èbbie c’ipe cino: – Ce iu’ màvrise? – Ipe cini: – Ka iu’ màvrisa, iu’ m’èkame e tàlassa -. Ipe cini: – De ka kau sto gratti echi enan arnai; on esfàzome n’o fame? – Èbbie ce ipe cino: – Ka on esfàzome! – C’èbbie a machèria c’ena limbo. Ensìgnase na ta mulefsi itta machèria.

            Èbbie tuo èffie sti’ barkunà, is’arnai. Ce fonazi: – Mbemberembé, mia’ cara sorella: li curteddhi stane ammulati e lu limbu stae priparatu -. Piàkane rispùndefse cini c’ipe: – Mbenimberibé, miu caru fratellu stau mbucca lu pesce, ce ti pozzu fa? – Èbbie tuo àndratti ce fònase olu u’ marinaru na pilisu’ te’ rite na tsikkosu’ itt’afsari to mea pu echi. Belisa’ te’ rite ce tsikkosa’ t’afsari, depoi tapu tôguale ipe tuo àndratti: – I te’ n’is kàmome i’ tsìassu? – N’i’ piame n’i’ lìfsome petrojo ce na pame mes ti’ mesi ce n’i’ kàfsome, n’i’ pame strascinìsonta ris ene squàjefse.

            Ce stàsisa felice kuntenti. Is pu te’ n’u di, na pai sti’ Romi ka us torì.

 

                                                           Losa Gaetana (Martignano, 10 ottobre 1885)

 

icona italiano

IL FRATELLINO AGNELLO

 

C’era una volta una madre che aveva due figli, un figlio e una figlia. La madre, che era una ricca proprietaria, morì e i ragazzi restarono in casa d’una zia. Ora, finché si trattò di consumare i loro stessi beni, la zia li volle, ma subito dopo li cacciò di casa: – Andate a cercarvi il pane, – disse, – se volete restar qui.

La ragazza aveva una conocchia, il ragazzo si procurò un martelletto e si misero in un angolo; era inverno; lei si sedette e cominciò a filare, lui scavò per terra col martello e trovò un sacco di farina. Allora tornarono dalla zia, fecero il pane e lo mangiarono. Quando finì, la zia disse di nuovo: – Andate a procurarvi l’altro e poi tornate.

Per strada il fratello voleva bere. C’era lì un tale e disse: – Sì, dagli da bere, a questo ragazzino. Se berrà qui dentro, diventerà animale; se invece berrà di là, diventerà d’oro -. Bevve là dove sarebbe diventato animale; allora si trasformò in agnello e cominciò ad andare dietro la sorella. Giunsero a un punto della strada e incontrarono un gran signore; questi sposò la ragazza, la prese per moglie e la portò a casa sua. Vissero per molto tempo tutt’e due col fratellino agnello.

Un giorno, dopo parecchio, l’uomo andò a caccia; ed ecco presentarsi in quella casa, che stava proprio sulla riva del mare, la zia. La ragazza era affacciata al balcone e la zia le chiese: – Mi dai i vestiti che porti addosso? – Lei rispose: – Te li do -. Glieli diede; allora la zia afferrò la ragazza e la gettò in mare, poi indossò i vestiti che le erano stati dati.

Tornò a casa il marito e disse: – Tu sei nera! – Sono stata un po’ affacciata al balcone. – E tanto ti sei annerita? – Tanto mi sono annerita; così mi ha fatta il mare -. Poi continuò: – Sotto il letto c’è un agnello; lo ammazziamo e lo mangiamo? – Uccidiamolo -. Prese dunque i coltelli ed un catino e si mise ad affilare i coltelli.

L’agnello andò sul balcone e cominciò a gridare: – Beberebé, mia cara sorella, i coltelli son già affilati e il catino è preparato -. La sorella rispose: – Beberebé, mio caro fratello, io sto in bocca al pesce, che cosa ti posso fare? – Allora il marito fece venire tutti i pescatori affinché gettassero le reti e prendessero il pesce grande ch’era lì. Gettarono le reti e catturarono il pesce; poi, quando lo portarono fuori, il marito disse: – Ora cosa vuoi che facciamo a tua zia? – Prendiamola e ungiamola di petrolio, poi la portiamo in piazza, la bruciamo e la trasciniamo finché non si sarà dissolta.

E vissero felici e contenti.

Chi non crede e vuole controllare

vada a Roma e li potrà trovare.

 

dal racconto di Losa Gaetana (Martignano, 10 ottobre 1885)

 

 

Lascia un commento