Fiaba 16 – La capra bugiarda (E guscia fsematara)

LA CAPRA BUGIARDA (E guscia fsematara) contenuta nel manoscritto anonimo di Martano.

             Il racconto corrisponde esattamente al tipo 212 dell’indice AARNE-THOMPSON, diffuso in gran parte dell’Europa, soprattutto nord-orientale. Nell’ambito della Grecìa Salentina, un’altra versione dello stesso racconto compare nell’opera già incontrata di M. CASSONI (p. 151) nonché nella raccolta di P. STOMEO (p. 121); qui però la conclusione è diversa: minacciata dal padre, la capra si rifugia in una tana dove intimorisce diversi animali, ma non il riccio che, pungendola con i suoi aculei, riesce a farla scappar via.

            Anche la storia riportata nell’indice D’ARONCO (sez. II, 200 a) presenta una diversa conclusione: il terzo figlio “bastona la capra, che scappa e minaccia anche il padre; questi apre gli occhi e si rappacifica col figlio”.

            Ho trovato infine il motivo della capra bugiarda in una fiaba dei fratelli GRIMM (36), dove però essa figura quasi come una parentesi in un contesto del tutto differente.

 

 

 icona2     E GÙSCIA FSEMATARA

 

          Mia forà iche a ciuri ce iche tria pedia. Os èbike mia’ gùscia; efònase to mea n’i’ pari na fai es kampagna: – Akkorto, n’i’ kordosi kalà; andé ti’ kordosi, evò s’essazo -. Ce tôdike fsomì n’o fai. Tis tôdike n’o fai e gùscia nâchi n’i’ kordosi, mi’ pai lenta o vrai, na mi’ pai ce on essazi. In èvaddhe es ta koràffia n’i’ kordosi kalà: ìbbie sa skiattata. Èftase essu. I’ ròtise o ciuri:

                        – Gusciarèddhamu, gusciarèddhamu,

                           epai kordomeni o nistikì?

                        – Epao nistikì;

                           demeni mo scinì es to porrai,

                           olo sìmmeri sentsa fai.

Èbike c’èssafse to pedittu. T’addho dio estèane ecisimà ce ìdane motti èfsase on adreffotto.

            O ciuri efònase to mezzano, tôdike to fsomì, ipe: – Vale kura n’i’ feri kordomeni, ka andé s’essazo sekundu èssafsa on addho -. Egòmose i’ punga askàddia ce dio ruane, èbike c’ensìgnase n’i’ doi na fai. Motti io’ to vrai, in èvale ecessu ‘s a korafi min avina. Fai fai, ekòrdose ka ìbbie sa’ skiattata. I’ pire essu o vrai. I’ rotise o ciuri:

                        – Gusciarèddhamu, gusciarèddhamu,

                           epai kordomeni o nistikì?

                        – Epao nistikì;

                           demeni mo scinì es to porrai,

                           olo sìmmeri sentsa fai.

Èbike ce on èssafse.

            Efònase ton addho: – Dela ettù, piae tin gùscia, ce pàreti na fai, ce kordosotti kalà. Cio ‘en èbike makà o fsomì, manku askàddia. Ipe o ciuri: – Jakai ‘e pianni to fsomì? – ‘E telo ja makà, – ipe cio; – ènn’i’ paro na mi ti’ doko tìpoti, ka e gùscia kai vrai e’ ertomena kordomeni sa’ skiattata, ce panta elei ti pai nistikì -. Èbike ce i’ pire es kampagna, c’in èdese mo scinì es to porrai. Èftase essu, i’ ròtise o ciuri:

                        – Gusciarèddhamu, gusciarèddhamu,

                           epai kordomeni o nistikì?

                        – Epao nistikì;

                           demeni mo scinì es to porrai,

                           olo sìmmeri sentsa fai.

Èbike ce on èssafse. Èbike ce i’ pire o ciuri; i’ kòrdose kalà. Motti i’ pire essu, i’ ròtise:

                        – Gusciarèddhamu, gusciarèddhamu,

                           epai kordomeni o nistikì?

                        – Epao nistikì;

                           demeni mo scinì es to porrai,

                           olo sìmmeri sentsa fai.

   – Ah, – ipe o ciuri, – ti môkame! Sôkama tosso na fai, c’ipe ti pai nistikì, demeni mo scinì es to porrai olo simmeri sentsa fai? – In èbike o ciuri, i’ krèmase es to’ palo c’ensìgnase n’i’ siri o derma. Is tôsire o derma, c’in errèndefse es to kama.

            Ensìgnase i gùscia na pratisi. Prai prai, ìvrike a kafùrkio c’embike ecikau es to frisko. In èkame malin ora, c’èchese ecì kau. U mìrise o skatafao a skatà pu èkame e gùscia ecì kau. Epirte o skarafao, ensìgnase n’antalisi es pìnnetu. – Tis ene? – ipe i gùscia. – Evò ime, – o skarafao.

                        – Na min emba ettukau,

                        ka ‘vò vastò a dòntia sa’ rasuli

                        ce an embi ettukau se tro sekundu o pasuli.

                        – C’evò ime skarafao:

                        s’embenno es to kolo,

                        su kanno zii zii zii mes ale,

                        ce su kanno nâguis apù ‘ttukau.

 

 

                                                                       manoscritto anonimo di Martano

 

icona italiano

LA CAPRA BUGIARDA

 

C’erano una volta un padre e tre figli. Il padre comprò una capra e chiamò il figlio maggiore perché la portasse a pascolare in campagna: – Attento, che sia ben sazia; se non la riporti bell’e soddisfatta, t’ammazzo -. E a lui diede il pane per la giornata. Il giovane, affinché la capra fosse ben sazia e non tornasse leggera, col rischio di finire ammazzato, le fece mangiare anche quel pane. Poi la portò per i campi a pascolare per bene: quasi quasi scoppiava. Tornarono a casa e il padre domandò:

– Capra, capretta, sei ben sazia

o la scorta è stata stretta?

– A digiuno tutto il giorno,

con la fune stretta al collo,

sotto un albero d’ulivo

dal mattino al mio ritorno.

Il padre prese allora il figlio e lo ammazzò. Gli altri due erano lì e videro il povero fratello che veniva ucciso.

Il padre chiamò il secondo; gli diede il pane e disse: – Stai ben attento a riportarla sazia, altrimenti ti ammazzerò come ho fatto con l’altro -. Il ragazzo si riempì le tasche di fichi secchi e taralli d’orzo, e fece mangiare tutto alla capra. All’imbrunire, la portò perfino in un campo d’avena: mangia mangia, per poco non scoppiava. La sera la riportò a casa. Il padre domandò:

– Capra, capretta, sei ben sazia

o la scorta è stata stretta?

– A digiuno tutto il giorno,

con la fune stretta al collo,

sotto un albero d’ulivo

dal mattino al mio ritorno.

Il padre prese di nuovo il figlio e lo uccise.

Chiamò il terzo: – Vieni qui, prendi la capra e portala a pascolare, finché non è ben sazia -. Il ragazzo non prese né pane né fichi secchi. Il padre domandò: – Perché non prendi il pane? – Non ne voglio, – egli rispose, e pensò: “Devo portarla e non darle niente, perché questa capra è tornata ogni sera gonfia da scoppiare e ogni volta ha detto d’essere digiuna”. La portò in campagna e la legò con la fune a un albero d’ulivo. Tornarono a casa e il padre domandò:

– Capra, capretta, sei ben sazia

o la scorta è stata stretta?

– A digiuno tutto il giorno,

con la fune stretta al collo,

sotto un albero d’ulivo

dal mattino al mio ritorno.

Prese il figlio e lo uccise.

Andò il padre, stavolta, a far pascolare la capra; la fece saziare ben bene. Poi, quando tornò a casa, le chiese:

– Capra, capretta, sei ben sazia

o la scorta è stata stretta?

– A digiuno tutto il giorno,

con la fune stretta al collo,

sotto un albero d’ulivo

dal mattino al mio ritorno.

– Ah, – disse il padre, – maledetta, cosa mi hai combinato! T’ho fatta mangiare a sazietà e dici d’esser digiuna, legata tutto il giorno con la fune all’albero d’ulivo? – Allora l’afferrò, l’appese ad un palo e si mise a scorticarla. Le tirò via tutta la pelle e l’abbandonò al sole.

La povera capra cominciò a camminare. Cammina cammina, trovò una tana ed entrò dentro, al fresco. Ci rimase parecchio e svuotò lì il suo intestino. Lo scarafaggio fiutò quel ben di Dio che la capra aveva fatto, andò e si mise a frullare le ali. – Chi è? – chiese la capra. – Sono io, lo scarafaggio.

– Guai per te se non scompari:

come lame ho pronti i denti,

ti maciullo in due momenti.

E lo scarafaggio:

– La mia arte so ben fare;

or ti vengo dentro l’ano

con le ali a titillare:

scapperai con gran baccano.

 

dal manoscritto anonimo di Martano

 

 

Lascia un commento