Fiaba 8 – Una candela al diavolo (Cini pu is èkame i’ chari o demoni)

UNA CANDELA AL DIAVOLO (Cini pu is èkame i’ chari o demoni = La donna cui il diavolo fece la grazia), raccontata da Micareddha a Calimera, il 1 dicembre 1911, e raccolta da V. D. PALUMBO.

             La parte centrale del racconto, costituita dal sogno, corrisponde al motivo 1645 B dell’indice AARNE-THOMPSON (gli esempi citati sono riferiti a Lituania, Cecoslovacchia, Grecia, Palestina).

            Si tratta di un motivo analizzato da S. FREUD in un breve saggio dal titolo Sogni nel folklore (Opere, Vol. VI, pp. 471-487). Egli riferisce in proposito due esempi: il primo è costituito da un racconto di Poggio BRACCIOLINI, contenuto in Facetiae (Milano, 1904), che riferisce di un sogno in cui il demonio conduce un uomo ad un tesoro e gli suggerisce di contassegnare il posto con le feci; al risveglio, l’uomo si accorge di aver defecato nel letto; il secondo è dato da una storia ucraina, riportata da TARASEVSKY, in cui un contadino riceve in sogno un tesoro dal diavolo, al quale ha acceso un cero, e depone un mucchio di feci per contrassegnare il luogo. L’interpretazione suggerita da FREUD mira a stabilire, attraverso tali esempi, una relazione tra feci e tesoro: “I sogni riportati dal folklore – egli scrive – mostrano nel modo più inequivocabile che l’oro è un simbolo delle feci. Se il dormiente ha bisogno di defecare, egli sogna l’oro, sogna un tesoro. Nel travestimento che avviene nel sogno, e che mira, ingannandolo, a permettergli di soddisfare i propri bisogni a letto, di solito il mucchio di feci serve da segnale per contraddistinguere il posto dove si potrà poi ritrovare il tesoro; il sogno, cioé, come attraverso una percezione endopsichica, afferma chiaramente, anche se in forma rovesciata, che l’oro è un segno o un simbolo delle feci”.

            Il racconto della nostra tradizione, come si può facilmente notare, è il risultato di una originale elaborazione di questo motivo di base: cercando di inserirlo in un contesto comprensibile e significativo, la fantasia popolare gli ha costruito attorno una storia in qualche modo possibile, quella di una donna incontinente.

 

icona2   CINI PU IS ÈKAME I’ CHARI O DEMONI

 

           

Mia forà isan diu ce rmàstisa. I’ pronì nifta pu plòsane e jineka kutùrise o gratti ce kutùrise puru o mai andruti. Doppu ide cino o mai kuturimeno: – Ah, ci t’ha criata, – ipe, – utton bìzion echi puru? Is fseri mi on echi panta. Ka an ekisà on echi panta, e’ kajo na chasì pu ‘ttossu.

            Ìfsere cini ti on echi daveru, ce pirte stin aglisia na prakalisi o’ Kristò. Doppu kàise o Papa Vito na fsemoloisi, cini pirte ‘mpì sto kunfessionàrio. Epianni ce nsìgnase n’u pivi ti cini echi on bizio pu kuturì, ce ti kutùrise o mai tu ndruti. – Kiaterèddhamu, ti ènna su kamo ‘vò ti su kuturì to gratti? – ipe cino. – Mi echi kami kammia preghiera ‘s kanen ajo, mi echi kami tìpoti… ti forsi mu kanni i’ charin, – ipe. – Beh, – ipe cino, – nafse diu kandile ‘s passon artari, ti forsi ei kanén ajo ka su kanni i’ chari.

            Guike atto kunfessionàrio, mbike sti’ porta ce pirte ‘Luppiu ce vòrase ìkosi kandile. Irte ce nsìgnase na nafsi st’artària: diu passon artari. Is èmine mia – ti is ichan dòkonta ikosimia – ce i’ kanoni: – Ti ènna kamo ma tui? – ipe. – Fseri ti ènna kami? – ipe mia vèkkia. – Pia’ ce nafsetuti cinù pu ‘cikau -. Ce is èdifse o demoni, pu este kau ‘s enan artari. Cini scema scema pianni ce u tin ènafse; c’este puru o demoni sto lustro.

            Ecì pu este c’èblonne i’ nifta, is pirte ‘s ipuno uso demoni. Èbbie c’is fènato ti este panu ‘s ena’ largo, ‘s ena’ ‘ttofsu, ce ipe: – Ellae ‘ttuna, de ti ‘ttusimana echi mian akkiatura ce avri pornòn èrkese c’i’ piannis, – ipe. Ipe cini: – Ka ‘vò arte ti mbesteo o’ topon? – Fseri ti kame? – ipe o demoni, – kame ena’ kirimifsi, ti avri pornò torì to kirimifsi c’èrkese ce o pianni -. Pirte na piai lisària, c”en iche pùpeti, ‘en iche manku pitassa. Icha’ chasonta a lisària. Teleste cino èkame na chasune. – ‘En ei manku lisària ettù, – ipe cini, – pos ènna kamo? – Fseri ti kame? – ipe cino, – pia’ ce chese ce avri pornò torì ti’ skafatsa ce fseri pu ene. Arte nsìgnase cini na mposi n’is ègune, na kami poddhà, na di o simai. On èchese ce o kuturise o maron àndratti.

            Fsùnnise cino: – Ah, pu na kami ti’ kardia! – ipe, – ‘fte sti’ nitta me kutùrise; arte m’èchese ce me kutùrise! – In èbbie lafté: – Amon es ti’ mànassu – ipe, – ka ‘vò ‘e se telo pleo. In èkame na pai sti’ mànatti ce ‘e ti tèlise pleo.

 

 

                                  Micareddha (Calimera, 1 dicembre 1911)

 

 

icona italiano

UNA CANDELA AL DIAVOLO

 

C’erano una volta due giovani sposi. La prima notte che dormirono insieme, la donna pisciò il letto e bagnò pure la camicia del marito. Quando egli s’accorse della camicia bagnata, disse: – Ah, maledetta, hai questo bel vizio? Chissà se è un’abitudine; perché, se è così, sarà meglio che non ti faccia più vedere.

Lei, che sapeva del suo difettuccio, andò in chiesa a pregare il Signore. Poi, quando papa Vito si sistemò per ascoltare le confessioni, andò dietro il confessionale e cominciò a raccontare che aveva il vizio di pisciare il letto e aveva anche bagnato la camicia del marito. – Figlia mia, – disse il prete, – che cosa posso farci io se tu pisci il letto? – Non so… una preghiera particolare a un santo… qualcosa da fare per ottenere una grazia… – Beh, – egli disse, – accendi due candele ad ogni altare; può darsi che qualche santo ti faccia la grazia.

La donna s’alzò allora dal confessionale, di diresse alla porticina, andò dritta a Lecce e comprò venti candele. Tornò e si mise ad accenderle ai vari altari; due per ogni altare. Le era rimasta una, perché gliene avevano date ventuno, e la guardava: “Che cosa devo fare con questa?” si chiedeva. – Sai cosa devi fare? – le disse una vecchia: – prendila e accendila a quello laggiù -. E le mostrò il diavolo, che stava sotto un altare. Lei stupidamente andò e gliela accese; così pure il diavolo stava alla luce.

La notte, mentre dormiva, le apparve in sogno il diavolo. Le pareva di stare in uno spiazzo, in campagna: – Vieni qui, – le disse il diavolo, – sappi che in questo punto c’è un tesoro; torna domattina e prendilo. – Ma io come faccio a indovinare il punto esatto? – lei chiese. – Sai come devi fare? – suggerì il diavolo: – ammucchia delle pietre; domattina vedrai il mucchietto e potrai trovarlo -. La donna andò a cercare le pietre, ma da nessuna parte c’erano pietre, neppure un sassolino; erano scomparse del tutto; forse le aveva fatte scomparire il diavolo. – Qui non ci sono pietre, cosa devo fare? – lei domandò. – Vuoi saperlo? – disse il diavolo, – fai il tuo bravo bisognino e domattina vedrai la tua reliquia e saprai dov’è -. Lei cominciò allora a sforzarsi, per farne tanta, di cacca, e lasciare una buona traccia. Lo pisciò e lo smerdò per bene, povero marito!

Quando egli si svegliò: – Ah, disgraziata, – gridò, – che tu possa rigettare l’anima! L’altra notte mi hai pisciato; stavolta mi hai pisciato e cacato! – La prese a calci, poi disse: – Tornatene da tua madre, e non farti più vedere! – Così la mandò via e non la volle più.

 

dal racconto di Micareddha (Calimera, 1 dicembre 1911)

Lascia un commento