Fiaba 31 – I dodici mesi (O kunto mu’ dòdeka minu)

I DODICI MESI (O kunto mu’ dòdeka minu = Il racconto con i dodici mesi), versione senza titolo scritta con grafia diversa, senza data né nome.

            Di questo racconto ho trovato numerose versioni greche: nella raccolta di MEGAS (I, 15), in LEGRAND (2), in LOUKATOS (p. 100), in DAWKINS (76). Un esempio pugliese è presente nella raccolta di LA SORSA (Vol. II, Serie IV, 21), che riporta una fiaba di Fasano dal contenuto simile. Il riferimento più interessante è costituito comunque dalla novella Li mise del Pentamerone di G. BASILE (V, 2).

            DAWKINS nota una maggiore presenza di questo tipo di racconto nel mondo slavo, dove, egli scrive, “i mesi trovano spesso posto tra i folletti, le fate, gli spiriti dell’acqua, i quattro venti e le quattro stagioni; talvolta tra i santi del calendario cristiano”.

 

 

O KUNTO MU’ DÒDEKA MINU

 

icona2         Ìone mia forà ce ìsane diu adèrfia ce ìchane o’ negozio. Ena pus tutta adèrfia eskosi ena’ pornò ce pirte sti’ puteka ce in ìvrike fseputimeni, sentsa tìpoti, ce ìone aderfottu stesso pu on iche klèfsonta. Tuo, doppu ite iu, ensìgnase na kami kàtare ce èffie sti’ desperaziuna.

            Prai prai, ce èftase mia’ lokanda fore paisi, embike ecessu ce iche dòdeka signuru ce o’ patruna, ce stèane oli nfilerai ce ste tròane. Tuo èbike ce ipe: – Doketemmu tìpoti na fao, ka ‘en ime prata tìpoti. – Meh, – ìpane usi signuri. Ekàise ma cinu ce ìpane isi signuri: – Po’ vrìskese ‘s tutta merei, ce ‘tturtea ‘en èrkete manku tispo? – Eh, – ipe cino, – m’èguale e desperaziuna, ce vresi ‘s tutta merei. – Ce pemma, pemma, – ìpane tui, – e dòdeka mini ti kànnune? Kànnune pràmata àscima, de’? Sas eskuajèune ji’ fsichra de’? – tûpa’ tunù. – Eh, – ipe tuo, – ti ènna kàmune, ftechùddhia: tipo, embrò stin annata pu feto. – Ti lèune mo marti? – Nsomma, ìpane oli ti lèune. – Ti ènna pune? Ka ‘en e’ janomena tosse tristarie. – Dunque, – ipa’ cini, – i’ kalì? – Gnorsì. – De, – ìpane, – de ka ‘mì ìmesta e dòdeka mini. Amo ce na mi’ to pi tinò ce ‘mì su dìome utti tabakkera gomai tabakko: mirìzese ce kumandei cippu teli esù -. U ti’ dòkane ce pirte èssutu.

            Cippu ìtele, tôrkato. Ejetti signoro mea. Èftase ena’ cerò pu o addho aderfò o’ glefsa’ cino otikanene, c’èmine nudu e crudu ce pirte ston aderfò pu pirte ecì ce ipe: – Pos ejetti rikko esù? – Epirta es quai lokanda ce iche signuru ce mu doka’ lire poddhè -. Epianni tuo, èvale i’ stra’ kau, prai prai, ce èftase ecì: embike ecessu ce ipe ti pai sfamao na fai. Èbike ce u dòkane na fai, depoi ìpane cini: – Ti lèune attu’ minu, kakò o kalò? – Atsu! Pu nâ’ fotia n’us kafsi! Kalò pu n’os e’ jestimao, àscimi janomeni, tristi, pu n’o’ doi! – Insomma ipe poddhì kakò. Tusi dòdeka mini on efsikkòsane ce o kordalìsane kalò kalò, on esfàfsane ce o’ fìkane vìttimo c”e jùrise pleo. E jineka èmine èmine ce pirte ston aderfò ce tûpe: – Àndramu nkora ènnârti -. Ce ipe cino: – S’on esfàfsane ecì pu ‘en e’ ‘rtomeno -. E jineka ensìgnase na klafsi ce ipe o aderfò: – Meh, mino ti evò ‘en echo jineka, ce se pianno esena -. Epiàstisa, stàsisa kalì kuttenti ce kalì kunsulai: àrtena esteu’ kajo pi mai.

 

                                                                                  (Calimera)

icona italiano

I DODICI MESI

 

C’erano una volta due fratelli che avevano un negozio. Uno di loro s’alzò una mattina e trovò la bottega svaligiata, senza più niente; era stato lo stesso fratello a derubarlo. Il poveretto si mise allora a imprecare e, preso dalla disperazione, andò via.

Cammina cammina, arrivò ad una locanda lontana dal paese; entrò dentro e vide dodici signori tutt’intorno al tavolo insieme col padrone che mangiavano. – Datemi qualcosa da mangiare, – egli disse, – muoio dalla fame. – Prego, – fecero quei signori. Si sedette con loro e i signori cominciarono a interrogarlo: – Come mai da queste parti? Qui non viene mai nessuno. – Eh, – rispose, – mi ci ha condotto la disperazione. Ecco come sono arrivato. – E dicci, – ripresero quelli, – come vi trattano i dodici mesi? Vi tormentano, vero? Vi hanno sfiniti col freddo? – Cosa volete che ci facciano, poveretti? Nulla di male, se consideriamo l’annata trascorsa. – Che si dice di marzo? – Cosa volete che si dica? Non ha fatto molti capricci -. Insomma, ad uno ad uno, s’informarono su tutti i mesi. – Sicché sono buoni? – Sissignore. – Sappi, – dissero allora, – che siamo noi i dodici mesi. Ora va’, ma non lo dire a nessuno; eccoti questa tabacchiera piena di tabacco: quando la prenderai per annusare il tabacco, comanda pure quel che vorrai -. Gliela diedero ed egli se ne tornò a casa.

Qualsiasi cosa desiderasse, compariva. Divenne un gran signore. Un giorno capitò al fratello d’esser derubato di tutto e di rimanere senza un soldo. Allora andò dall’altro e gli chiese: – Come hai fatto tu a diventare ricco? – Sono andato in una locanda dove c’erano tanti signori che mi hanno riempito di denaro -. Così anch’egli si mise in strada e, cammina cammina, arrivò allo stesso luogo. Entrò dentro e disse che non si reggeva per la fame. Gli diedero da mangiare, poi cominciarono a domandargli: – Cosa si dice dei mesi? Si parla bene o male? – Caspita! Ci vorrebbe un gran fuoco per bruciarli, altro che dir bene! Maledetti mascalzoni! – Insomma non finiva di parlar male. I dodici mesi l’afferrarono, lo bastonarono per bene, l’ammazzarono e lo gettarono via. Non tornò più. La moglie, aspetta aspetta, alla fine si recò dal fratello e disse: – Mio marito non è ancora tornato. – Se non è tornato, vuol dire che l’hanno ucciso, – egli rispose. La povera donna cominciò a piangere; allora il fratello disse: – Aspetta, non piangere. Io non ho moglie; ora prendo te -. Si sposarono e vissero felici e contenti. E adesso sono i più felici dei viventi.

 

(Calimera)

 

 

 

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