Fiaba 7 – Il lupo, la volpe e il campo da coltivare (O liko, e alipuna ce o korafi)

IL LUPO, LA VOLPE E IL CAMPO DA COLTIVARE (O liko, e alipuna ce o korafi), raccontata da Concetta a Calimera, il 17 ottobre 1885, e raccolta da V. D. PALUMBO.

             I motivi presenti in questa storiella corrispondono ai motivi 9, 9A e 9B, nonché 3 e 4, dell’indice AARNE-THOMPSON, e sono presenti in quasi tutta l’Europa (a volte, al posto del lupo, compare l’orso). La raccolta di LA SORSA testimonia la loro presenza anche in Puglia; in particolare, lo stratagemma della ricotta sulla testa, ideato dalla volpe per farsi portare in spalla dal lupo, compare in un racconto di Gioia del Colle (Vol. I, Serie I, 1), e la coltivazione in comune di un campo di grano in un racconto di Apricena (Vol. I, Serie I, 4).

            La volpe che si finge malata e viene caricata in spalla dal lupo figura inoltre in una delle Fiabe italiane di I. CALVINO (125), che egli riporta, come scrive, “in omaggio alla giovanile attività di raccoglitore di tradizioni popolari napoletane di Benedetto CROCE” (p. 858).

            Nei Testi neogreci di Calabria i motivi della ricotta sulla testa e del malato che porta il sano compaiono in un racconto di Condofuri (p. 277); gli stessi motivi sono inoltre presenti in alcuni racconti siciliani riferiti da LO NIGRO (pp. 3-4). LO NIGRO, in particolare, riferendosi a questi ed altri motivi che hanno come protagonista la volpe (e che troveremo anche in altri testi della nostra raccolta), riferisce numerosi studi che indagano sull’origine di tale ciclo di narrazioni e sulle sue relazioni con la tradizione letteraria (epica medievale, Roman de Renart).

            Simile nella trama al racconto calimerese è infine la fiaba greca della raccolta di MEGAS (Vol. I, 2) Il lupo e la volpe; qui, però, è la furbizia della volpe ad esser premiata – infatti a lei toccherà il grano e il lupo invece dovrà accontentarsi della paglia – mentre la conclusione del nostro racconto sembra voler esaltare il principio della giusta ricompensa del lavoro e della punizione dell’indolenza.

 

icona2  O LIKO, E ALIPUNA CE O KORAFI

 

           

Io’ mia forà ce ìone ena’ liko ce mia alipuna; ce stea’ tui ìunna pu ‘e kanna’ kammia. Mian attes foré, ipe o liko tis alipuna: – ‘En ènghize na piàme ena’ korafi n’o spìrome? – O pìannome, – ipe e alipuna.

            Piaka’ citto korafi. O vrai kama’ tokontratto. O pornò skòsisa ce pìrtane. Ftàsane sto korafi ce nsignasa’ na skàfsune. Tui, e signura, stràkkefse, e alipuna. – Evò, – ipe cini, – likùddhimu, stràkkefsa. Evò pao ce kratò (*) i’ serra c’esù skafse. – Ce arte pai ce me finnis? – ipe cino. – Ma motti pu e serra ste ce petti, evò pao c’i’ kratò – ipe cini. (**)

            Tuos èbbianne ce polema sto’ fàttottu ce piste ti e ‘lipuna ste ce kratì i’ serra. Tui ti èkanne? Ìbbie votonta; ecì pu ìvriske fai, eddhe. Doppu ìbbie tui ce kòrdonne – tra tra, pu ìbbie ‘cessu ste’ massarie – doppu èguenne pu iche na pai ‘cì cino, èvaddhe mia’ rikotta panu sti’ ciofali, ìbbie ‘mbrò cino: – Ah, ti èndesa sìmmeri, ‘cì pu krao’ ti’ serra! Diake ena’ pekurari, môsire mia’ botta ravdì ce môguale a mialà. – Prai polema, ti ènna spiccèfsome o korafi, – èkanne o likuddhi. Respùndefse e alipuna: – Evò su leo: prai na pame essu, ti ‘e resisteo pleo; – ti vasta i’ pantsan gomai.

            Nsomma èbbie tui ce pirtan essu. Skùriase. Es ti’ stra’ tappu pìane: – Vu! ‘E fidèome na kamo i’ stran, – ipe e alipuna. – ‘En ènghize na me piai lion akkanci? – tûpe u liku. – Ah, – ipe cino, – ka ‘vò telo piammenos evò! – Ce umme, ce deje, ce piamme… In èbbie ‘kkanci. Dopu este pànutu, tui e alipuna, èbbie ce ntrikefti na kantalisi:

                                               – Na-na, na-na,

                                              lu malatu porta la sana!

Ce cino ‘e fela, ti ìbbie strakko: – Ah, karogna, – ipe o liko, – allora kannis iu jatì pai kordomeni!? C’ipe ti ‘e sozi! – Èbbie c’in eskiòppefse sto’ lakko. – Beh, stasu ‘ttù, ti ‘vò pao essu, – ipe. – Vu, ti môkame! Ka ‘sù me ruìnefse pleo poddhì, – ipe e alipuna.

            Nsomma, na mi tin bastàfsome poddhì makrea, pirtan essu. Ftiasa’ na fane ce cini ‘e telise makà na fai: ìbbie kordomeni. – Minkiala, prai fae! – ‘E telo, ka ‘sù me skuàjefse; pos ènnârto na fao? – Stasu, ti tro ‘vò -. Piaka’ ce plòsane, e alipuna ce o liko. O pornò fsemèrose. – Meh, prai ce aska ce pame ‘ttofsu! – Amon esù, pu efes eftè sto vrai. – Ènnârti puru ‘sù. – Evò èrkome; ma, an èrkome, i’ serra kratovo.

            Eh, tappu ftàsane ‘cì, èkame i’ stessa tevni (***). Na mi’ tin bastàfsome makrea, èkame itti tevni mian addomà, e alipuna u liku. Nsomma, èftase pu o terìsane, utto krisari. O pìrane st’aloni, o lonìsane, o kulumosa’ ce o fìkane. – Beh, – is ipe is alipuna o liko, – epame na piame itto krisari? – Umme, umme, – ipe cini. – Kànnome is pu ftazi proi to pianni? – Va bene, – ipe o liko, – is pu ftazi proi to pianni.

            Èbbie i’ stra’ tui ce nsìgnase na pratisi. ena’ punton ampì, tappu tui icha’ kàmonta o’ patto, icha’ pàronta o quartuddhin ecianu; ce o liko iche vàlonta ena’ sciddhon ecessu ce on iche sciopàsonta mo’ sakko. Ftàsane. Tappu ftàsane ‘cisimà, tui arte, pu este pleon ambrò, ìbbie cherùmeni ti ftazi ce fsikkonni to krisari. – Kumpare likuddhi, evò èftasa. – Ce piatto, – ipe cino. Chiusti sto quartuddhi tui, pu este sciopammeno. Pirte n’o fsesciopasi, na fi o’ sakko. Fèonta o sciddho! In efsìkkose atto sfòndilo c’in errebbàttefse. – Meh, pia’ o krisarin arte, – ipe o liko. Nkora ste ce rebbatte. Tôbbie o liko, pu tûche polemìsonta, ce èmine olo kuttento.

 

 

                                                           Concetta (Calimera, 17 ottobre ’85)

 

* Il verbo “kratò” che qui compare è sostituito nel griko parlato oggi da “kratenno”.

 

** Nel manoscritto compare in parentesi a questo punto la seguente annotazione, riferita probabilmente da uno dei presenti (lo zio): “Pu ‘ttu èrkete cino pu lèome: “Stasu ce krai i serra!”, j’is pu ‘e kanni tìpoti (da qui deriva il detto: “Rimani a tenere la sega”, riferito a chi non fa niente).

 

*** Il narratore usa a questo punto la parola “andalia” (da “endalò = suonare”?) e, alla domanda di spiegazione, preferisce sostituirla con “tevni” (arte).

 

 

icona italiano

IL LUPO, LA VOLPE, E IL CAMPO DA LAVORARE

 

C’erano una volta un lupo e una volpe, e se ne stavano così senza far niente. Un giorno il lupo disse alla volpe: – Che ne dici di prendere un terreno e seminarlo? – Prendiamolo, – rispose la volpe.

Presero il terreno; la sera fecero il contratto, la mattina si alzarono e s’incamminarono. Giunsero in campagna e cominciarono a zappare. Lei, la signorona, la volpe, si stancò: – Io, – disse, – caro lupo, mi sono stancata. Vado a tenere la sega mentre tu zappi. – E tu te ne vai e mi lasci solo? – Sì; però, se la sega sta per cadere, io sto lì pronta a reggerla.

Il lupo lavorava per conto suo e credeva che la volpe reggesse la sega. Lei, invece, – che faceva? – andava in giro e, dove trovava qualcosa da mangiare, mangiava. Dopo aver – tra, tra, tra – rovistato per masserie, ormai sazia, dovendo tornare da lui, si schiacciò una ricotta sulla testa e gli si parò davanti: – Ah, che sventura mi è capitata oggi, mentre reggevo la sega! E’ passato un pastore, mi ha tirato un colpo di bastone e mi ha spappolato il cervello. – Vieni a lavorare, dobbiamo finire il campo, – faceva il lupo. E la volpe: – Io ti dico di tornarcene a casa, non ci resisto più. – Infatti lei aveva la pancia piena.

Insomma se ne tornarono a casa. S’era fatto buio. Sulla via del ritorno, la volpe disse: – Ahimé, non ce la faccio a camminare! Non potresti prendermi un po’ sulle spalle? – Ah, – disse lui – dovrei esser portato io in spalla! – E sì e no, e dai e prendimi, alla fine il lupo se la caricò addosso. Quando gli fu sopra, la volpe si mise a cantare:

– Trallalà, che cosa strana:

il malato trasporta la sana!

Il lupo sì che non ce la faceva, perché era stanco: – Ah, carogna, – egli disse allora, – dici così perché sei sazia! Altro che non ce la fai! – La prese e la gettò in una pozzanghera: – Resta pure qui, io vado a casa, – disse. – Oh, che mi hai fatto; mi hai rovinata del tutto! – disse la volpe.

Insomma, per non portarla per le lunghe, andarono a casa. Prepararono la cena, ma lei non volle mangiare: era sazia. – Vieni a mangiare, stupida. – Non voglio, tu mi hai rovinata; come faccio a mangiare? – Stai pure lì, mangio da solo -. Se ne andarono a dormire, il lupo e la volpe. La mattina, appena spuntò l’alba: – Alzati, su, andiamo in campagna! – Vacci tu, che hai mangiato ieri a sera. – Devi venire anche tu. – Va bene, vengo. Ma se vengo, tengo solo la sega.

Quando arrivarono lì, fece la stessa storia. In poche parole, per una settimana, la volpe ripeté al lupo la solita solfa. Giunse infine il tempo di mietere l’orzo. Lo portarono sull’aia, lo batterono, l’ammucchiarono e lo lasciarono. – Beh, – disse il lupo alla volpe, – andiamo a prendere l’orzo? – Sì, sì, – rispose lei – facciamo così: chi arriva per primo, lo prende.

La volpe si mise per strada e cominciò a correre. Un po’ prima, quando avevano fatto il patto, avevano portato un quartuccio sull’aia, e il lupo ci aveva messo dentro un cane, coprendolo con uno straccio. Quando stavano per arrivare, lei, che era più avanti, era tutta allegra perchè avrebbe preso l’orzo: – Compare lupo, io sono arrivata! – Prendilo! – disse lui. La volpe si lanciò sul quartuccio, che era coperto. Andò a scoprirlo, a togliere lo straccio, e saltò su il cane; afferrò la volpe per il collo e cominciò a sbatterla. – Beh, adesso prendi l’orzo! – disse il lupo. Lei ancora si dimenava. L’orzo, invece, se lo prese il lupo, che se l’era lavorato, e rimase contento.

 

dal racconto di Concetta (Calimera, 17 ottobre 1885)

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