Fiaba 82 – La ragazza con la bambola (O kunto mi’ pupa)

LA RAGAZZA CON LA BAMBOLA (O kunto mi’ pupa = Il racconto con la bambola), versione senza titolo nel manoscritto raccontata da Costanza Parma Tranti a Calimera, il 5 giugno 1886, e raccolta da V. D. PALUMBO.

            Di questa fiaba, dalla narrazione piuttosto sommaria e disadorna, ho trovato un solo parziale riscontro nel racconto di Palermo I tre racconti del pappagallo, compreso nell’appendice III dell’opera di LO NIGRO (p. 294). Qui “una principessa smarrisce la bambola e si allontana da casa per cercarla (…). Un principe trova la bambola e si ammala perché non può conoscere la sua padrona. La principessa lo guarisce e lo sposa”.

            La bambola, elemento centrale di questa storia, compare talvolta nelle fiabe tra gli oggetti magici donati al protagonista. PROPP, elencando alcuni esempi, e riferendo le credenze di numerosi popoli relative a tale oggetto, ritiene che la bambola rappresenti il morto: “Essa è il morto, bisogna darle da mangiare, e il morto, incarnato in questa bambola, aiuterà i vivi” (p. 319).

            Lungo una diversa linea interpretativa, quella della psicanalisi junghiana proposta dalla von FRANZ, la bambola rappresenta invece una proiezione del Sé. “Si considera generalmente la bambola – scrive la studiosa – come la proiezione delle fantasie di maternità della bambina. Ma non è questo il solo aspetto della bambola: molti bambini piccoli non possono addormentarsi senz’avere un asciugamano, un orsacchiotto o qualche altro feticcio accanto al loro guanciale (…). In questo stadio, la bambola non è ancora il figlio del bambino, ma il suo dio, come i sassi animati dell’Età della pietra. (…) Penso che anche la relazione del bambino con la sua bambola o l’asciugamano contenga la prima proiezione del Sé. E’ l’oggetto magico dal quale dipende la vita del bambino e in virtù del quale egli può conservare la sua essenza; perderlo è una tragedia spaventosa” (Il femminile nella fiaba, Torino, 1983, p. 161).

 

O KUNTO MI’ PUPA

 

scvrivano rimpicciolito     Io’ mia forà ce ìone ena’ signoro ce mia signura, ce icha’ mia’ kiateran òria, ce i’ kratusa’ kara: este panu ‘s ena’ palai manechèddhati manechèddhati, c’ìbbie e serva c’is èperne na fai; mai ‘kkàtenne cini. Mia’ forà o ciùritti iche na pai ‘s ena’ paisi larga, ka io’ fera. Pirte sti’ kiatera c’ipe: – ‘sù pemmu ti telis, – ipe. Respùndefse cini c’ipe: – Evò telo mia’ pupa na stasì ma mena; c’ènn’i’ feris isa ma mena; c’ènna milisi, – ipe cini.

            Depoi is tin èfere, c’èblonne ma cini. Mia’ forà icha’ na pane ‘s ena’ paisi larga, fore regnu, e kiatera ce oli, ‘cessu sti’ karrotsa. Tèlise na pari i’ pupa cini: in èvale pànuti ‘cessu sti’ karrotsa, ce tèlise n’i’ pari. Depoi is èpese pu panu: iche tri nifte ka pratusa’, c’is èpese pu panu. Cini ‘kkateke sti’ botta ce pirte n’in briki, krifà atti mana. Ce pùpeti in ìvrike. Ce cini tin iche vrìkonta ena’ pedì signuru, utti pupa, c’in iche vàlonta ‘s emmia kàmbara, c’este manechèddhati.

            Nsìgnase na pratisi ce pùpeti in ìvrike. Depoi is ipe mia kristianì: – Panu sto’ tale palai stei e pùpasu, – ipe. Ce cini ‘nneke ecipanu, c’ipe: – Vrìkato makà i’ pùpamu? – ipe. C’itto pedì pu in iche vrìkonta iche pesànonta ce on icha’ pianta e stiare. Depoi, dopu on icha’ pianta e stiare, e signura ipe: – Teli na mini ma mena ‘ttuanu ja kiateran dikimmu? – ka ‘en iche tinò, diu serves iche. Depoi ipe e padruna: – Evò pao stin aglisia, ce ‘sù stasu ma tue; ce den, – ipe, – a’ su pu’ tipo, pèmmuto: voniu! – ipe.

            Depoi respùndefsan e serve c’ìpane: – Arte pu èrkete e padruna, fseri ti ènn’is pi? Pestis, – ipa’: – Ma ‘sù me gapà kundu gapa o pedissu? – arte cine e ‘nvìdia ìone. Dopu irte depoi, is to tûpe. Ce cini ipe: – Amo, amo pu ‘ttù, ti ‘vò se gapò kajon esena pi o pedimmu, – ipe.

            ‘Kkateke cini ce nsìgnase na pratisi. ‘Ffrùntefse mia’ kantina ce mbike: ce ‘cikau iche o pedì pu ste o tròane e stiare. Osson ìgue ena’ sùngulon ecikau: c’isan e stiare pu ste ce tròane o pedì. Cini ‘ffaccefti pus emmia fenestreddha ce ide itto pedì pu ste ce o tròane e stiare. Ìfsere isi kiatera ti io’ pedì cinì, c’èmbiefse lèonta sti’ mana cinù n’is embiefsi ena’ stenò na kami itto porteddhai pleo largo, ka ‘cì ‘en iche porta.

            Is to fera’ to stenò, èkame o porteddhai pleo largo ce mbike ecessu. Ìvrike mia’ koppiddha mon aguento sti’ pronì kàmbara tis kantina, ce nsìgnase n’o lifsi cini m’itton aguento. Depoi ide ka ste c’èrkatto e stiare ka este ce on èlife, ide ka ste c’èrkatto e stiare ce guike pu ‘cessu.

            Depoi cini mapale este defore, pelì ena’ lisarai ce guènnune mapale, ce guènnune ‘ttumbrò. Depoi cino, pleo ton èlife, pleo ghènaton io. Depoi jetti io pròbbio: – Ah, – ipe, – pu nâis panta kalòn! – ipe. – Arte, – ipe, – ‘mì ènna piastùmesta oli ce diu, – ipe. Cini respùndefse c’ipe: – De’, – ipe, – jatì ‘vò ènna pao votonta na vriko i’ pùpammu, – ipe. Cino ìfsere ka i’ pupa in iche cino stesso, ma ‘e tis ipe tipo, jatì cino ìfsere ti cini iche nârti, ka is pupa i’ basta poddhìn agapi. Ce cini u tûche ponta cinù: – Fseri poa se pianno? Mottan vrisko tiì pùpammu.

            Depoi ‘ffruntei enan bèkkio ce o’ rotà: – Ise domena makà ti’ pùpammu? – C’iso vèkkio ion bèkkio paleo, ìfsere otikané cino. Respùndefse cino c’ipe: – Àmone sto’ tale palai ka in echi, – i’ doke olu tus andiritsu cino. Ma cino este ‘nteso ka ènnârti cini. Cini ion òria sentsa fina.

            Depoi cini este pu ‘cé stin addhi kàmbara ce ‘ffaccèato ce tori i’ pupa ‘ffacciata sto jalì. Ce cini este pu defore ce in guste. Ce cino puru in guste, ma ‘en ìfsere ti echi cini. Ce cino tis ele cinì: – Oh, che si bella! Considera la padruna quantu era bella! – Dopu ipe iu diu tris foré, pianni ce mbenni cini. Respùndefse e pupa c’ipe: – Na, e padrùnamu! – Cino ipe: – Evò in icha vrìkonta i’ pùpasu, torì? Ce ‘sù ipe ti tappu vriski ti’ pùpassu piannis emena. Arte spìccefse -. Respùndefse cini c’ipe: – A’ piain emena, ènna piai puru i’ pùpammu, – ipe. Respùndefse cino c’ipe: – I’ pupa i’ kratènnome sa’ kiateran dikimman, – ipe.

            Depoi piaka’ ce rmàstisa, kalì kuttenti, kalì kunsulai, kajon àrtena pi mai.

 

                                               Costanza Parma Tranti (Calimera, 5 giugno 1886)

 

icona italiano

LA RAGAZZA CON LA BAMBOLA

 

C’erano una volta un signore e una signora; avevano una figlia bellisssima e la custodivano gelosamente; la facevano vivere sola soletta sopra un palazzo e non le permettevano mai di uscire da lì; a portarle da mangiare, ci andava la serva. Un giorno il padre doveva recarsi in un paese lontano dove c’era una fiera; salì dalla figlia e le chiese: – Cosa vuoi che ti porti? – Lei rispose: – Voglio una bambola che stia con me, che abbia la mia stessa età e che sappia parlare.

Gliela comprò, e così la ragazza dormiva con la bambola. Un giorno la figlia e tutti gli altri dovettero partire per una località molto distante, fuori dal regno, e salirono sulla carrozza. Lei non volle staccarsi dalla bambola; la mise a sedere sulle sue gambe e se la portò dietro. Viaggiarono per tre notti; a un tratto la bambola le scivolò giù; lei, di nascosto dalla madre, saltò dalla carrozza e corse a cercarla. Cerca cerca, non la trovò da nessuna parte. L’aveva trovata invece il figlio di una signora, se l’era messa in bella mostra nella sua camera e l’aveva lasciata.

La ragazza continuò a cercare; cammina cammina, ma della bambola nessuna traccia. Le disse allora una vecchina: – Se vuoi trovare la tua bambola, devi cercarla su quel palazzo -. Lei vi salì di corsa e domandò: – Avete per caso trovato la mia bambola? – Ma il giovane che l’aveva raccolta era morto ed era stato trascinato via dalle streghe. Allora la signora le propose: – Perché non ti fermi qui con me? Ti terrò quassù come figlia -. Lei infatti non aveva nessuno con sé, viveva sola con due serve: – Aspetta qui, – disse dunque la signora, – io vado in chiesa; rimani con le serve e, mi raccomando, qualsiasi cosa esse ti diranno, me la riferirai subito.

Le serve le dissero: – Quando torna la padrona, sai cosa devi chiederle? Chiedile: – Ma tu mi ami come amavi tuo figlio? – Erano invidiose, le serve! Così, quando la signora ritornò, glielo chiese. – Che domande! – lei rispose: – voglio addirittura più bene a te che a mio figlio.

La ragazza poi scese dal palazzo e si mise a gironzolare; vide una cantina ed entrò; là sotto c’era il figlio della signora e le streghe se lo stavano mangiando; si sentiva una specie di scricchiolio, ed erano le streghe che rosicchiavano. Lei s’era affacciata da una finestrella e osservava la scena. Allora si fece procurare dalla signora un piccone per allargare un po’ la finestra; non c’era infatti una porta per entrare nella cantina.

Prese il piccone, allargò la finestra, entrò, trovò un vaso con dell’unguento all’ingresso della cantina e cominciò a ungere con l’unguento il corpo del giovane. A un tratto, mentre lo stava ungendo, sentì ritornare le streghe e corse a nascondersi; poi cercò un sasso, lo lanciò dentro e le fece uscire di nuovo. Rientrò, riprese a ungere il giovane; più lo ungeva, più quello rinveniva; alla fine, tornò vivo del tutto: – Oh, che tu sia benedetta! – disse allora: – dovremmo diventare marito e moglie, noi due. – Ma lei rispose: – Non posso, io devo cercare la mia bambola. Solo dopo averla trovata potrò prenderti per marito -. Egli sapeva di avere la sua bambola, ma non le disse niente; tanto, sarebbe ritornata di sicuro! Si lasciarono e ognuno andò per la sua strada.

Cammina cammina, la ragazza s’imbatté in un vecchio: – Hai visto per caso la mia bambola? – Era un vecchio proprio vecchio, lui, di quelli che sanno tutto; disse: – Vai su quel palazzo, – e le indicò la strada. Il giovane l’aspettava, perché era bella, così bella da non avere uguali.

Lei arrivò e da una stanza guardava la bambola che stava davanti allo specchio. Anche il giovane la stava ad ammirare e così le parlava: – Come sei bella! Immagina come dev’essere bella la tua padrona! – Lo ripeté più volte; allora la ragazza entrò e la bambola cominciò a parlare: – Eccola, la mia padrona! – E il giovane: – Vedi? Sono stato io a trovare la tua bambola. Ora, ricorda la promessa: trovata la bambola, mi avresti preso per marito. – Però, se prendi me, – lei rispose, – devi prendere anche lei. – Certo, la bambola la terremo come nostra figlia, – disse il giovane.

Si sposarono e vissero felici e contenti,

e anche adesso – sai? –

son più felici che mai.

 

dal racconto di Costanza Parma Tranti (Calimera, 5 giugno 1886)

 

 

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