Fiaba 86 – La bambola fatata (O kunto mo’ don Kajatso)

LA BAMBOLA FATATA (O kunto mo’ don Kajatso = Il racconto con don Galeazzo), versione senza titolo raccontata da Vita Meneleo a Corigliano, il 27 maggio 1886, e raccolta da V. D. PALUMBO.

            Il motivo centrale di questo racconto, relativo alle strane prodezze compiute dalla bambola, è presente anche nella fiaba La figlia del sole e corrisponde ad una parte del tipo 898 dell’indice di AARNE-THOMPSON. La presenza, qui, al posto della bambina, di una bambola che riceve l’incantesimo da parte delle fate non è isolata; anzi, come nota LO NIGRO (p. 203), è comune alla maggior parte delle versioni italiane (nell’indice D’ARONCO, nella fiabe 261 a, sez. II, una bambola di pasta è trasformata in ragazza dalle fate) e in numerose redazioni turche.

            La parte iniziale, invece, si avvicina al tipo 1739, in cui un parroco crede di aver partorito un vitello, e 1739 A, in cui un uomo crede di aver fatto un bambino scoreggiando.

            A proposito di questa prima parte, il testo manoscritto riferisce una breve osservazione della narratrice, la quale, mostrandosi forse imbarazzata per quanto va narrando, afferma che solo l’inizio del racconto è un po’ scabroso, il resto è bello.

            Credo interessante, in relazione allo strano avvio di questa fiaba, proporre una digressione interpretativa, per collegare, esemplificando in tal modo il contributo fornito dalla psicanalisi allo studio del materiale folcloristico, la credulità del prete della fiaba con la teoria infantile della nascita anale proposta da FREUD. “Il fatto di non conoscere la vagina, – scrive FREUD – consente inoltre al bambino di credere anche nella seconda delle sue teorie sessuali. Se il bambino cresce nel corpo della madre e ne viene poi espulso, ciò può avvenire soltanto attraverso l’unico percorso disponibile costituito dall’apertura anale. Il bambino deve venir evacuato come un escremento, come feci. (…)

            Stando così le cose, era soltanto logico che il bambino non ammettesse il doloroso privilegio della donna di partorire bambini. Se i bambini vengono partoriti attraverso l’ano, l’uomo può partorire non meno della donna. Il maschietto può quindi anche fantasticare di mettere lui stesso al mondo dei bambini, senza che per questo occorra incolparlo di inclinazioni femminili. Egli si limita in tal modo a manifestare il suo erotismo anale ancora desto.

            Quando la teoria cloacale si mantiene nella coscienza durante la fanciullezza, cosa che a volte avviene, essa porta con sé anche una soluzione, a dire il vero non già primaria, del problema relativo all’origine dei bambini. Le cose si svolgono come nella favola: si mangia una data cosa e se ne riceve un bambino. La malattia mentale fa poi rivivere la teoria infantile della nascita. La maniaca conduce, ad esempio, il medico che la visita a un mucchietto di feci depositato in un angolo della sua cella e gli dice ridendo: “Questo è il bambino che oggi ho partorito”. (S. FREUD, Teorie sessuali dei bambini, in Opere, vol. V, Torino, 1989, pp. 450-460).

 

O KUNTO MO’ DON KAJATSO

 

scvrivano rimpicciolito      O don Kajatso ìtele na fseri po’ gnennune e jineke. Pirte sti’ mammana ce tin ròtise; ce cini tûpe na rafsi to’ kolo ja dekapente mere, apoi na pai anu mia’ sucea, na lisi to’ kolo…

            Pirte. Ftàsane dekapente mere: pirte anu mia’ sucea, èlise to’ kolo, c’èkame ena’ pupatso. Iddiavìkane diu fate; e mali ghèlase; i mincì ipe: – Jatì ghelà? – Ipe: – Kanòscio, citto kristianò iste ce kanni ena’ pupatso. To fatèome? – To fatèome, – ipe e addhi. I’ fatèfsane nâ’ pupa; c’isi pupa ìmine ‘s kai kàmbara. Iso kristianò pirt’èssutu, o don Kajatso.

            Diavìkane cini pu sparèane, e kacciaturi; i sciddhi allittèane, torune citti pupa ‘mpì sto ticho, pistèane ti e’ puddhì mea ce allittèane. Ipitte ena’ c’ittus kacciaturu, na di ti prama echi ecirtea. Ide citti pupa, tin efsìkkose ce ti’ pire èssuti sto palati. Tin ìglise ‘mia kàmbara ce tin àfike.

            Cino po’ armasti, o padrùnati. Ipira’ ti’ signura anu sto paladi, ce ‘nan imera tin àfike pu pitte sti’ kàccia. C’isi pupa arcìnise na simani: iche tes eftà arte pu tis ichane fatèfsonta e fate. Motte ìkuse ti simeni, cini ipe: – Ti kratenni ‘ttupanu ‘so malandrino? – Ivòtise ole tes kàmbare na tin briki. Ipitte ‘cessu cini: tis ànifse, imbike ‘cessu, cini ìstike ce rakkame. Tis èpese e gattilistra. Ipe e pupa: – Scindi dìscetu e pija lu discetale -. O gàttilo akkatèvike c’èbike tin gattilistra apu ‘ciumesa.

            Isi signura, mottan ide iu, ipitte sti’ kambaratti ce arcìnise na rekkamefsi. ‘E tis èpette makà e gattilistra; èbbike c’èkame na pesi manechiti. Ipe tui tu gàttilu: Dìscetu, scindi e pija lu discetale. O gàttilo ‘en akkatèvenne. Ton èkofse manechitti jai n’akkatèvenne. Apèsane cini.

            Arte piànnome atton andra, t’irte cino atti’ kàccia. Imbike, ‘en ide tinò. Imbike sti’ kambaratti; in ide pesammeni. Tin èguale, tis èkame ‘tikané ce tin èguale. Imbike ‘cessu sti’ pupa ce tûpe e pupa: – Andé piai ‘mena, ‘e su si kanén ghineka.

            Armasti mapale cino. Ti’ pire ‘ciupanu. Doppu tosso cerò, guike sti’ kàccia mapale. Arcìnise na simani mapale i pupa ce cini ipe: – Ma ti kratì ‘ttupanu mapale iso malandrino? – Arcìnise na votisi ole tes kàmbare, ìvrike citti pupa, tis ànifse c’imbike. Iche ti’ fenestra ti affaccèato ‘mpì sti’ tàlassa. Ambelisti, mbike sti’ tàlassa, i pupa; èbbike ‘na kanistri me dio sciddhùtsia, guike ce tis tôdike ti’ signorina.

            Ipitte to pire anu so birò. Tis fani àscimo m’ena. Èkame to pensieri mapale cini na bejastì na piaki t’addho na komplefsi to birò. Ambelisti c”e guike makà pleo, ìmine ‘ciukau.

            Irte àndratti atti’ kàccia c”e tin ìvrike makata. Tis kràise kamposso lipi t”e tin ìvrike. Dopu tosso cerò, imbike ‘si pupa ce tûpe: – Andé piai ‘mena ‘su si kammia jineka.

            Doppu tosso cerò armasti mapale. Ti’ pire ‘ciupanu. Doppu tosso cerò, guike sti’ kàccia. I pupa arcìnise mapale na traudisi. Tui ipe mapale: – Ti echi ‘ttupanu? – Vòtise tes kàmbare c’imbike ce tin ìvrike travudonta. Èbike ipe: – Tripiedi, va’ mìntite allu focu. Fusura, susu lu tripiedi. Legne, sutta lu focu. Prosperi scia dumati focu. Cudrupu, minti ojiu.

            Doppu jetti t’alai èvale ta chèria ‘cessu, i pupa, ta vota ce ta fsevota; pleon òria tis guènnane ta cheria. Isi signorina, motten ide iu, ipitte arcìnise na kumandefsi ‘tikanene. ‘En ekkatèvenne tìpoti. Pitte tôvale manechitti; èvale t’alai, èvale ta chèria ‘cessu. A rìgnefse. Irte àndrati atti’ kàccia. Iskàscitse ‘cessu sti’ kucina – istike klimmeni. Is èkame ‘tikanene ce tin ègguale.

            Doppu tosso cerò, mbike sti’ pupa. Ipe: – Andé piai ‘mena ‘su si kammia -. Ipe: – Nghizi na se piako. Ipama citti kappeddha ce affidèome; andè stin aglisia en disonoro na piako ‘sena, pupa -. Èkame mian galessa afse pala sikovindiu. Èvale diu gaddhùtsia ja ‘mparia, èkame to’ kukkeri afse sikovindea. Imbike ‘cipanu cini, na pai sti’ kappeddha n’affidefsi.

            Sti’ strada pûbbie, ìvrike tes fate. Arcìnise na ghelasi i mali. Respùndefse i mincì: – Jaì ghelà? – E’ stinnù to struntso pu fatèfsamo toa? Kanòsciosti pos pai -. E mali ipe: – ‘E ti’ fatèome mapale? – Ti’ fatèome, – ipe e mincì -. I’ kàmane na deventefsi ‘na reginella, mon galesso fs’asimi, t’ampària krusà, o’ kukkeri kalò ndimeno. Àndrati ìbbie ambrò n’affidèfsune. Kai pos vòtise ampì c’ide ‘nan galessa oli fs’asimi. Ghiùrise c’ipìttane so paladi na kumbitèfsune olu tu’ signuru. Ipìttane sin aglisia n’affidèfsune. Affidèfsane.

            Motte stea’ ce guènnane, iche ta nìmata stin aglisia. E fate stèane ‘ciumbrò. Ipe e mali: – ‘E ti fatèome arte pu ènna di kalò cini ènn’i kàome na di fiakko? – Ipe addhi: – T’ene? – Motte ste ce iguenni, na nifsi ‘na nima n’us anghiuttefsi olu ‘ciukau -. Cini, mott’ìstike stin aglisia, mott’ìstike nâgui, ànifse to nima ce tus anghiùttefse olu ciu diu.

            Espìccefse. O kunto ‘pai pleo, ena’ turnisi mereteo. An e’ kalò piatto, andè pèjato sto’ lakko.

 

                                               Vita Meneleo (Corigliano, 27 maggio 1886)

 

icona italiano

LA BAMBOLA FATATA

 

Don Galeazzo voleva sapere come fanno le donne a partorire. Andò dall’ostetrica e glielo domandò; lei gli rispose di cucirsi il sedere per quindici giorni, poi di salire sopra un albero di fico e scucirselo.

Se ne andò. Arrivarono i quindici giorni: salì su di un fico, si scucì il sedere e venne fuori un pupazzo. Passarono due fate; la più grande si mise a ridere; la più piccola chiese: – Perché ridi? – Guarda quell’uomo, – lei disse, – sta facendo un pupazzo. Gli facciamo un incantesimo? – Facciamolo, – rispose l’altra. Gli fecero l’incantesimo che diventasse una bambola; e quella bambola andò a finire in una casupola. L’uomo, don Galeazzo, se ne tornò a casa.

Passarono due col fucile, due cacciatori; i cani abbaiarono: videro la bambola contro il muro, pensarono fosse un grande uccello e abbaiarono. S’avvicinò uno dei cacciatori per vedere che cosa c’era di là. Vide la bambola, la prese e se la portò a casa, sul palazzo. La chiuse in una stanza e la lasciò.

Dopo un po’ il padrone si sposò. Portarono la sposa sul palazzo e un giorno lei rimase sola perché il marito era andato a caccia. La bambola cominciò a suonare; le fate le avevano fatto l’incantesimo ed essa aveva le sette arti. Quando sentì suonare, la donna disse: – Che cosa nasconde qui, quel malandrino? – Si mise a cercare per tutte le stanze per trovarla. Infine andò dove c’era la bambola: aprì, entrò e quella stava ricamando. Le cadde il ditale. La bambola disse: – Scendi, dito, e prendimi il ditale -. Il dito scese e prese il ditale da terra.

La signora, quando vide ciò, andò nella sua stanza e cominciò a ricamare. Il ditale non le cadeva, e lo gettò lei stessa. Disse al dito: – Scendi, dito, e prendimi il ditale -. Ma il dito non scendeva. Allora, visto che non scendeva, se lo tagliò lei stessa. Morì.

Veniamo ora dal marito, che era tornato dalla caccia. Entrò e non vide nessuno. Andò nella stanza di lei e la trovò morta. La portò via, fece quel che doveva fare e la portò via. Poi si recò dalla bambola: – Se non sposerai me, – disse la bambola, – nessuna moglie ti sopravviverà.

Il padrone si sposò un’altra volta. Portò la moglie sul palazzo. Dopo parecchio tempo andò di nuovo a caccia. La bambola cominciò a suonare un’altra volta e la donna disse: – Che cosa nasconde qui, quel malandrino? – Si mise a girare per tutte le stanze e alla fine trovò la bambola: aprì ed entrò. C’era la finestra che dava sul mare: la bambola si gettò, andò nell’acqua e prese una cesta con due cagnolini; uscì e la diede alla signorina.

Lei andò a metterla sullo scrittoio. Le sembrò che stesse male una sola cesta. Allora pensò di gettarsi lei in mare per prendere l’altra e finire di ornare lo scrittoio. Si gettò e non uscì più, restò sul fondo.

Il marito tornò dalla caccia e non la trovò. Ne fu molto rattristato. Passò del tempo ed entrò nella stanza della bambola: – Se non sposerai me, – lei gli disse, – nessuna moglie ti sopravviverà.

Dopo parecchio si sposò di nuovo e portò la moglie sul palazzo. Un giorno andò a caccia. La bambola riprese a suonare. La donna disse: – Cosa nasconde qui? – Girò per le stanze; alla fine entrò dalla bambola e la trovò che cantava: – Treppiede, – diceva, – mettiti sul fuoco; padella, sul treppiede: legna, sotto il fuoco; fiammiferi, accendete il fuoco; oliera, versa l’olio.

Quando l’olio era bollente, la bambola mise dentro le mani; le girava e le rigirava, e le mani venivan fuori sempre più belle. Nel vedere tutto ciò, la signora si mise lei a dar comandi, ma non succedeva niente; allora fece da sola, mise l’olio e ficcò dentro le mani. Le raggrinzì. Il marito tornò dalla caccia e dovette rompere la porta della cucina, perché vi si era chiusa. Fece quel che si doveva e la portò via.

Passò del tempo e andò dalla bambola: – Se non sposerai me, – lei disse, – non sopravviverà nessuna. – Devo proprio sposarti, – rispose il padrone; – però andiamo in una cappella a celebrare le nozze; in chiesa sarebbe per me un disonore sposare una bambola -. Fece un calesse con un ramo di fico d’India; mise due galletti per cavalli ed un cocchiere fatto anch’egli di fico d’India. La bambola saltò su per andare a sposarsi nella cappella.

Strada facendo, incontrarono le fate. La più grande cominciò a ridere. La piccola domandò: – Perché ridi? – Ricordi il pupazzo cui abbiamo fatto l’incantesimo? Guarda un po’ come corre, – rispose la più grande; poi aggiunse: – Le facciamo un nuovo incantesimo? – Facciamolo, – disse la più piccola. La fecero diventare una reginetta, col calesse d’argento, i cavalli d’oro, il cocchiere ben vestito. Il marito andava avanti per le nozze. A un tratto si voltò e vide il calesse tutto d’argento. Allora tornarono sul palazzo e invitarono tutti i signori, poi andarono in chiesa a sposarsi. Si sposarono.

Stavano per uscire e c’erano le tombe nella chiesa. Le fate erano lì vicino. La più grande disse: – Le facciamo un incantesimo, così che, ora che viene il bello, facciamo venire il brutto? – Sarebbe? – domandò l’altra. – Che si apra una tomba, mentre stanno uscendo, e li faccia sprofondare dentro -. Così, quando stavano ancora in chiesa e stavano per uscire, s’aprì una tomba e precipitarono tutt’e due.

Fine.                Il racconto è terminato

ed io un soldo ho meritato.

Se ti è piaciuto, tienilo a mente;

se no, gettalo tranquillamente.

 

dal racconto di Vita Meneleo (Corigliano, 27 maggio 1886)

 

 

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