Il griko: una testimonianza

di Salvatore Tommasi

 

A molti abitanti della Grecìa Salentina della mia generazione (nati negli anni ’50) è toccato in sorte, a livello linguistico, un singolare destino: quello di costituire una specie di linea di confine, uno spartiacque, tra coloro ai quali è stata trasmessa, come lingua materna, il griko e coloro che invece hanno appreso come prima lingua il dialetto romanzo. Spesso, come nel mio caso, questa linea di confine ha attraversato e diviso le stesse famiglie: alcuni membri del nucleo familiare hanno comunicato tra loro correntemente in griko, ma utilizzavano il dialetto romanzo per rivolgersi a fratelli o figli più piccoli, mettendo in atto un curioso ed originale bilinguismo.

Credo sia difficile stabilire i motivi e le vie attraverso cui, ad un certo punto della storia delle nostre comunità, si è fatta strada ed è prevalsa questa tacita e inconsapevole decisione collettiva. Si tratta tuttavia di un dato di fatto che ha interessato, per quanto con qualche differenza temporale tra i diversi paesi, tutta la Grecìa, ed esso rappresenta, a mio avviso, il necessario punto di partenza per una riflessione attuale sul griko.

Il griko, ultimo residuo di una millenaria presenza della lingua greca nel Salento, sopravvissuto per secoli attraverso la semplice trasmissione orale in un territorio via via più ristretto, fino a comprendere solo gli odierni nove paesi della cosiddetta Grecìa Salentina, non costituisce più la lingua materna delle nuove generazioni di questa “isola” linguistica. Viene ancora utilizzato come lingua di comunicazione, ma solo presso gruppi ristretti, e da persone, in genere, di un’età compresa tra i 40-50 anni in su. La mia generazione si trova dunque nella condizione di essere l’ultimo testimone della sopravvivenza del griko e nello stesso tempo il testimone della sua lenta ed inesorabile scomparsa.

Della sua sopravvivenza, anzitutto. Per quali ragioni il griko è sopravvissuto da noi così a lungo, e da quanto tempo sopravvive? Non sono un filologo o uno storico e non ho elementi per poter scegliere e sostenere una delle differenti ipotesi avanzate dagli studiosi in relazione all’origine della lingua greca del Salento. Emotivamente attratto dalla suggestiva teoria della derivazione magno-greca, non posso comunque accantonare le riflessioni linguistiche e i dati storici forniti dai sostenitori dell’origine bizantina. E mentre, da un lato, mi chiedo se gli elementi arcaici presenti nel griko non possano aver caratterizzato la lingua dei gruppi di greci trasferitisi nel Salento in epoche successive, dall’altro lato mi domando se non sia ipotizzabile che i greci venuti in questo territorio nel periodo bizantino si siano sovrapposti a popolazioni ellenofone già esistenti.

Qualunque sia l’origine del griko, essa è comunque remota e, di conseguenza, il perdurare nei secoli di questa lingua, per giunta, da un certo periodo in poi, priva di scrittura e di ogni riferimento colto, fosse anche di carattere religioso, non può non destare stupore e interesse. Spesso, a giustificazione del mantenimento della nostra tradizione linguistica, si è fatto riferimento alle condizioni di isolamento e di arretratezza delle nostre comunità. Tale spiegazione mi sembra però riduttiva. Penso piuttosto che alla radice del caparbio attaccamento dei nostri antenati alla loro lingua ci sia stato un inconsapevole bisogno di affermare e conservare la propria identità: forse per una ingenua convinzione di superiorità nei confronti degli altri o semplicemente per un sentimento di diversità e di particolare appartenenza.

Allo stesso modo, quando si analizza la tendenza del griko a scomparire, credo ci si debba riferire, più che alle diverse sollecitazioni e costrizioni esterne, pur presenti ed evidenti, a motivazioni interne al gruppo degli ellenofoni, cioè ad un’intima presa d’atto, da parte di chi fa uso di questa lingua, della sua insufficienza e del suo esaurimento. In realtà, il griko è stato per secoli espressione della civiltà contadina e di essa ha veicolato, di generazione in generazione, valori, usanze, convinzioni, memoria storica. D’altra parte, come affermano i linguisti, “la lingua può essere compresa solo come parte di un tutto: l’esistenza umana nel suo complesso. La lingua si intreccia continuamente ad essa ed è presente in tutte le sue manifestazioni”. Si può quindi pensare che alla base dell’esaurirsi del griko ci sia proprio il declino del mondo contadino, mondo caratterizzato dalla stabilità nel conservare le sue tradizioni e forme culturali, che nelle nostre comunità, come si è detto, facevano tutt’uno con la trasmissione della lingua grecofona. Così, finché ha potuto, il griko ha assimilato nelle sue strutture termini presi dal dialetto romanzo delle comunità circostanti per colmare eventuali lacune lessicali, dando prova per questa via della sua vitalità e originalità; ma, di fronte ai profondi cambiamenti sociali e culturali del mondo attuale, esso mostra i suoi limiti e la sua inadeguatezza: non è più funzionale alla mutata situazione, non basta a comunicare i contenuti e i sentimenti della modernità, e di conseguenza viene abbandonato.

Per quanto processi del genere sfuggano alla volontà ed alle decisioni individuali e non possano neppure essere condizionati o indirizzati da interventi pubblici o istituzionali, ciò non toglie che essi provochino sentimenti di disagio e di rammarico; non si può evitare che l’abbandono di una lingua venga avvertita come una perdita o una sorta di tradimento, e che a questo si cerchi in qualche modo di reagire. Al punto che, per quanto riguarda le nostre comunità, si è di fronte ad una situazione curiosa e a prima vista paradossale. Al tramonto del griko, unica traccia concreta e visibile di un’antica appartenenza, fa riscontro oggi una forte sensibilità ed un impegno crescente nel realizzare forme di aggregazione e iniziative che affermino agli occhi degli altri la nostra particolare ascendenza e identità. E, bisogna dire, con successo. Al punto che la nostra minoranza linguistica ha avuto di recente un riconoscimento legislativo e la denominazione “Grecìa Salentina” è entrata ormai nell’uso comune, nel linguaggio dei media, nella più diffusa designazione dei nove paesi ellenofoni del Salento.

Non si tratta in realtà di un paradosso. “La tradizione è oblio delle origini”, scrive il filosofo Merleau-Ponty. Finché c’è la tradizione, non c’è bisogno di ricercare le origini. Perché le origini fanno tutt’uno, sono incluse nella tradizione. Nel nostro caso, per chi parlava il griko, non c’era alcun bisogno di ricercare le origini o di farne ostentazione: esse erano presenti e vivevano in quella lingua. Il problema delle origini comincia a porsi quando la tradizione scompare: nasce allora l’esigenza di esprimere per altre vie il bisogno di identità, il ricordo del passato. Per noi questo significa fare i conti con la questione del griko – fondamentale elemento che ancora ci caratterizza – e con la sua possibile salvaguardia. Riferirsi infatti alla Grecìa Salentina senza il griko significherebbe riferirsi ad un guscio vuoto.

Ma, è possibile conservare il griko, quando le nuove generazioni hanno smesso di parlarlo? E in che modo?

Mi sembra si possano riscontrare a tale proposito atteggiamenti differenti. Qualcuno coltiva in merito un sentimento nostalgico e, direi, velleitario: crede possibile un ritorno al passato, una ripresa dell’uso generalizzato del griko; vorrebbe che si tornasse a parlare in griko ai bambini. Qualcuno crede invece che si possa rivitalizzare il griko attraverso l’insegnamento del greco moderno; si tratta anche in questo caso, a mio avviso, di una proposta astratta, che porterebbe, al limite, al misconoscimento e all’annullamento delle peculiarità storico-linguistiche della nostra lingua. Ritengo invece più concreto e culturalmente corretto proporre il griko alle nuove generazioni come “oggetto di studio”, come documento della nostra storia.

Questo comporta, invero, una sua paradossale metamorfosi, una mutazione genetica: da tradizione orale, il griko dovrebbe diventare lingua essenzialmente scritta; essere codificata e organizzata nelle sue regole morfologiche e sintattiche e come tale resa disponibile per l’insegnamento. Dalla famiglia il suo luogo privilegiato di trasmissione dovrebbe diventare la scuola. Da lingua di comunicazione il griko dovrebbe diventare lingua di studio e di cultura, testimone nello stesso tempo di una civiltà scomparsa e di remote origini. Né si tratta di un recupero solo linguistico, dal momento che un ricchissimo patrimonio folklorico, fatto di fiabe, racconti, poesie popolari, proverbi, offre preziosi documenti di cultura popolare da conoscere e studiare. Esiste d’altro canto anche una letteratura colta in griko degna di essere raccolta e valorizzata.

Mi sembra sia questo, dunque, il compito più giusto e realistico per la nostra generazione “spartiacque”. Esso costituisce in definitiva una ripresa della strada seguita da nostri illustri studiosi del passato, come Vito Domenico Palumbo o Mauro Cassoni, i quali con grande lungimiranza hanno intuito il valore del patrimonio di cultura della Grecìa, dedicandosi conseguentemente sia alla codificazione linguistica del griko che alla raccolta e trascrizione dei suoi documenti.

Ma, proporre oggi ai nostri ragazzi lo studio del griko è cosa utile, possibile, realistica? Non è semplice dare una risposta a questa domanda. D’altra parte, però, non si dovrebbe sottovalutare (nonostante l’odierna tendenza alla massificazione e all’anonimia) il bisogno presente in un gruppo, in una comunità, di trovare elementi di identità collettiva, di riconoscersi in una tradizione. Ecco: conservare in qualche modo il griko risponde al bisogno di mantenere per noi e per i nostri figli un’identità.

In una fiaba, raccolta dal Palumbo a Calimera alla fine dell’Ottocento, che richiama tuttavia un mito antico e universale, si racconta di un bambino, nato da una relazione incestuosa, che viene chiuso in una cassetta e gettato in mare. Raccolto da un marinaio, il piccolo sopravvive e viene allevato insieme con gli altri figli del soccorritore. Quando diventa giovanetto, apprende dagli scherni dei fratelli che il marinaio non è il suo vero padre. Messo alle strette, quest’ultimo gli consegna allora la cassetta con gli straccetti di un tempo. Il ragazzo può partire così alla ricerca dei suoi genitori e delle sue origini, che i miti di solito raccontano essere regali.

Insomma, il griko è per noi come la cassetta di stracci della fiaba. Perché privare i nostri figli di questo debole filo d’Arianna attraverso cui, nel complicato labirinto dei nostri giorni, ricostruire il passato e costruire se stessi?

 

L’organizzazione e l’offerta di questo nuovo sito internet si propone come ulteriore contributo per l’affermazione e la valorizzazione del nostro singolare elemento identitario: la lingua, appunto. Si tratta pur sempre, pur se in modo diverso, di rispondere ad un dovere, personale e generazionale: trasmettere, adattandolo alle mutate condizioni del presente, il nostro antico patrimonio culturale.

 

 

 

Lascia un commento