Lingua e identità: il caso del griko

di Salvatore Tommasi

 

“Confine”. Mi è stato chiesto una volta, alla sprovvista, di definire il concetto di confine, di esprimere cosa significasse, secondo me, a cosa potesse servire tale idea. Costretto ad una riflessione immediata, mi è apparsa subito evidente l’ambiguità del concetto, una sua intima contraddittorietà. Perché, nel momento stesso in cui si traccia una linea qualsiasi per determinare un limite, ritagliare una parte, definire un ambito, lo sguardo va oltre, istituisce una alterità, suggerisce un superamento, stabilisce un rapporto. Sicché mi è parso che il concetto di confine, che si è portati a rappresentare come l’estremità chiusa ed invalicabile di un territorio, di un campo qualsiasi, serva piuttosto a definire noi stessi, a racchiuderci in un dominio ristretto e padroneggiabile di caratteristiche, per evitare di disperderci. Per facilitare, rendere possibile la nostra stessa comprensione. Ed eccoci pronti, allora, a costruire confini di ogni tipo: di genere, di spazio, di tempo, di razza, di ceto, di cultura. Ogni confine ci distingue, ci definisce e ci identifica, aggiungendo via via elementi alla nostra identità, specificandola, arricchendola.

Anche la lingua è un confine. Me ne accorgo quando mi capita di essere all’estero. Mi presento, ad esempio, alla reception dell’albergo e, come prima cosa, chiedo: “Parlate italiano?” Prima di affidarmi a diverse, più incerte, competenze linguistiche, mi identifico attraverso la mia prima lingua, la lingua che conosco e padroneggio meglio, quella nella quale comunico. Cerco di attirare l’altro nel mio confine, prima di scavalcarlo. Attraverso la lingua dico a me stesso e agli altri chi sono. La lingua stabilisce un aspetto della mia identità.

In realtà, per quanto mi riguarda, la mia prima lingua non è stato l’italiano. La sorte ha voluto infatti che nascessi in uno di quei pochi paesi del Salento dove era sopravvissuta, ed era ancora in uso, un’antica lingua ellenofona, millenaria, conosciuta con il nome di griko. Era la lingua dei miei genitori, ed in quella anch’io sono stato allevato. Si tratta di una lingua minoritaria, conservata solo per trasmissione orale, dal lessico piuttosto povero, riferito soprattutto al mondo contadino ed alle quotidiane, fondamentali esigenze comunicative. Da più di un secolo essa è diventata anche oggetto di curiosità e di studio: ha subito una sorta di vivisezione filologica, ha dato luogo a discussioni più o meno accese, è stata addotta come prova di opposte conclusioni storico/linguistiche.

Se qui, tuttavia, torno ad esaminarla, non è per riprendere vecchie argomentazioni né per proporre nuovi esami linguistici, ma solo per cercare di comprendere il suo ruolo nella definizione identitaria di una comunità e dei suoi individui: quello del passato ed, eventualmente, quello del presente. Per secoli, infatti, questa lingua ha rappresentato indubbiamente il fondamentale tratto distintivo di una popolazione che, pur condividendo con i paesi limitrofi il resto degli aspetti economici e culturali, ha voluto tracciare una sorta di confine immateriale per mantenere viva la propria identità. D’altro canto, è parimenti indubbio che questa specificità linguistica sta per scomparire, essendo cessata, in tutte le comunità “grike”, la sua naturale trasmissione alle nuove generazioni. Mi sembra normale che quest’ultima circostanza sollevi domande e riflessioni. Come mai una lingua cessa rapidamente di rappresentare il segno caratterizzante di una collettività, di una persona, e, come un abito logoro, viene dismessa e gettata via, dopo esser passata indenne attraverso secoli di storia? Tentare una risposta a simile interrogativo implica per me, essendo coinvolto in prima persona (a livello generazionale) nel processo di cambiamento, oltre ad un esame oggettivo, esterno, anche uno sforzo di autoriflessione.

 

 

Prima di parlare dell’abbandono, però, vorrei soffermarmi un attimo sulla sua conservazione. Credo, infatti, che la resistenza millenaria di questa lingua si possa considerare davvero singolare: la si faccia risalire ad epoca bizantina, o se ne collochi l’origine all’epoca della Magna Grecia o in tempi addirittura più remoti, la sua persistenza rimane straordinaria e, giustamente, non ha mancato di suscitare negli studiosi stupore ed ammirazione. Chiedendosi che cosa abbia reso possibile tanta longevità, essi, tuttavia, si sono generalmente soffermati ad indicare delle ragioni, per così dire, esterne, e per giunta “negative”. Hanno cioè descritto le popolazioni grecofone come delle piccole comunità contadine, autosufficienti e caratterizzate da chiusura sociale, arretratezza, assenza di spostamenti e di contatti: sarebbero state tutte queste condizioni a consentire e spiegare il mantenimento di una lingua atavica, nonché di credenze, abitudini, costumi di un passato lontano, quando ormai anche le istituzioni religiose, ed ogni espressione della cultura greca codificata, erano scomparse dal nostro territorio.

Non riesco a comprendere il motivo di questa visione, che a me sembra riduttiva ed unilaterale. Essa, infatti, non vede, nel nostro caso, e non rappresenta la lingua come mezzo di affermazione di una identità, come strumento visibile e privilegiato di demarcazione di una differenza, vissuta magari con orgoglio, come espressione di attaccamento ad una storia considerata evidentemente pregevole e da non dimenticare. D’altra parte, a contraddire la teoria dell’isolamento è la stessa lingua grika: anche l’esame più superficiale testimonia la sua contiguità con il mondo circostante, sia nell’assimilazione del lessico romanzo nelle sue strutture, presente in tutti i testi della tradizione orale, sia nella elaborazione dei vari contenuti espressivi, che appaiono in gran parte comuni e condivisi. La rappresentazione, inoltre, spesso riferita, delle comunità grike come di gente “con due lingue” presuppone una diffusa conoscenza tra di esse anche della lingua romanza accanto a quella grecofona principale. E questo porterebbe ad accentuare l’elemento identitario nella conservazione del griko, visto che era comune la competenza comunicativa anche in un’altra lingua. L’affermazione di una identità sarebbe, in conclusione, la causa principale della longevità della nostra lingua ellenofona, e non la deprivazione socio/culturale o la marginalità delle nostre comunità nel più vasto contesto territoriale.

 

 

Non diversa mi sembra la situazione quando si analizzano le circostanze che starebbero alla base della scomparsa del griko, o meglio dell’interruzione della sua trasmissione come lingua principale. Anche stavolta vengono enfatizzate, da parte degli studiosi che si sono posti la questione, le diverse sollecitazioni e costrizioni “esterne”: l’obbligo scolastico, l’incremento dei contatti conseguente a servizio di leva, guerre ed emigrazione, le politiche dello Stato unitario e poi, soprattutto, del fascismo. In un recente studio antropologico condotto nei paesi della Grecìa Salentina la nostra situazione viene espressamente ricondotta e descritta come esempio di “colonialismo culturale”. La ricerca avrebbe evidenziato, infatti, «come i parlanti griko siano stati sottoposti a vessazioni di ogni genere, in taluni casi anche fisiche, perché smettessero di esprimersi nella loro lingua. (…) La violenza alla quale sono stati sottoposti, imponendo l’italiano come lingua unica (…) ha manifestato la volontà di una società egemone di affermare con la forza la propria volontà a una società considerata subalterna». Al contrario, in tutti i griki sarebbe presente «la consapevolezza di essere portatori di un patrimonio culturale che non può essere cancellato e alienato con una imposizione, non può essere obliterato: la loro cultura è grika, ne sono coscienti e al tempo stesso orgogliosi». (1)

A mio avviso, rappresentazioni del genere non rispecchiano la realtà. O, meglio, nascondono ancora una volta il suo aspetto soggettivo, la responsabilità soggettiva. Naturalmente non voglio negare la presenza e l’importanza delle mutate condizioni storico/sociali. Chiaramente tutto vi si riconduce. Ma è proprio la reazione “soggettiva” ai cambiamenti, il modo di viverli e di confrontarsi con essi, a determinare l’abbandono del griko. Non credo che qualcuno, nel decidere di cambiare il suo codice linguistico con i figli, si sia sentito “obbligato” o “vessato”. Sono state, piuttosto, le stesse caratteristiche che avevano consentito al griko di sopravvivere a diventare il limite per la sua sopravvivenza. Limite evidentemente percepito e condiviso dai parlanti, e che ha portato questi ultimi alla decisione di abbandonarlo. In altre parole, mentre in un mondo contadino, dalle strutture semplici e stabili, la lingua grika della tradizione era stata uno strumento sufficiente sia per la trasmissione culturale che per marcare il confine identitario nel contatto/confronto con i paesi vicini, nelle mutate condizioni economico/sociali essa non lo era più. I griki hanno colto cioè l’inadeguatezza della loro lingua alla nuova situazione ed hanno “saggiamente” deciso di scegliere per i propri figli il secondo codice linguistico, che pure era in loro possesso, quello romanzo, come più adatto ad inserirli nel mondo in trasformazione.

Mi sembra sia semplice, in definitiva, delineare e comprendere il contesto del cambiamento linguistico descritto. Nell’arco di pochi anni, in effetti, nel nostro territorio tutto era cambiato: non si cuoceva più con i carboni, non ci si muoveva più con il cavallo, non si costruiva più secondo vecchi modelli abitativi, non ci si scaldava più con il braciere… Il mondo industrializzato, insomma, aveva fatto il suo ingresso anche nei nostri paesi, trasformando la nostra vita. L’aveva migliorata, secondo la comune convinzione, aprendola a nuove prospettive. In questo contesto, il confine identitario del griko sarebbe stato un limite, un impaccio, per le nuove generazioni. Meglio sostituirlo. I ragazzi degli anni ’50 del secolo scorso dovevano inserirsi in un mondo che si allargava a dismisura. Un mondo che avrebbe richiesto loro conoscenze, spostamenti, contatti più vasti. E nello stesso tempo avrebbe permesso una ascesa sociale prima impensabile. La società tradizionale, con la sua economia, le sue abitudini, e la sua lingua, non avrebbe più offerto loro possibilità di sopravvivenza.

Ragionamenti del genere, espressi o latenti che fossero, devono aver spinto la generazione dei miei genitori a cambiare, da un figlio all’altro, la lingua materna trasmessa, rendendo le loro famiglie teatro di un sorprendente bilinguismo. E mi sembra piuttosto fonte di meraviglia, e degno di studio, sul piano antropologico, o più esattamente della psicologia collettiva, la contemporaneità e la generalità del processo: sembrerebbe che tutti gli abitanti di queste comunità si siano unanimemente accordati e, nell’arco di pochi anni, abbiano attuato la decisione comune. Come mai nessuno si è opposto, nessuno è stato recalcitrante? Come è stata possibile tanta condivisione?

Vorrei provare, d’altro canto, a fare un’ipotesi assurda. Cosa sarebbe successo se, da parte delle istituzioni pubbliche, si fosse cercato di ostacolare questo processo? Se fosse stata attuata, cioè, qualche forma di imposizione per mantenere la trasmissione del griko come lingua materna? Se, al contrario di quanto viene talvolta raccontato, la scuola avesse punito i bambini che non parlavano il griko? Sicuramente, un intervento del genere, sarebbe stato percepito come obbligo odioso e intollerabile, come volontà di impedire emancipazione e ascesa sociale: stavolta, sì, una “vessazione”. Forse, l’ipotetica situazione appena delineata, potrebbe offrire anche una chiave di lettura, e permetterci di capire l’attuale avversione, generalizzata quanto inespressa, verso forme di rivitalizzazione del griko avanzate da qualche élite locale: si tratterebbe, cioè, di una inconscia paura d’essere risospinti verso un passato di fatto “arretrato e povero”, d’essere ricacciati in confini definitivamente superati.

A volte mi capita di constatare quasi plasticamente l’inadeguatezza del griko (che, come ho detto, è stata la mia lingua materna) alle odierne esigenze comunicative. Qualche anno fa sono stato coinvolto in un progetto di elaborazione di un testo didattico per l’insegnamento del griko secondo le moderne strategie ed i livelli standard di apprendimento delle lingue straniere. Per uniformare il lavoro alle tipologie più in uso, venivano proposti alcuni modelli da seguire, riferiti ad ambiti linguistici particolarmente significativi sotto il profilo della comunicazione. Si suggerivano, ad esempio, situazioni del genere: “All’aeroporto”, “Nell’agenzia turistica”, “In banca”… Nei confronti di compiti del genere, chi conosce il griko si rende conto di essere posto davanti ad una paradossale alternativa: o di non poter comunicare o di dover imporre le strutture grammaticali grike al lessico di un’altra lingua. Di fatto, comunicare in un’altra lingua.

 

 

Sicché, per tornare alla situazione che descrivevo all’inizio, quando vado alla reception di un albergo straniero, mi presento e mi identifico attraverso l’uso della lingua italiana. L’italiano è ora, infatti, la mia lingua di comunicazione. E lo è per tutti (o quasi tutti) gli abitanti dei paesi grecofoni. Questo significa che il griko, abbandonato ormai quasi del tutto nel corrente uso comunicativo, ha perso anche la sua funzione identitaria? Ha cessato di essere un “confine” che individua e arricchisce la rappresentazione di noi stessi? In realtà, nei paesi della Grecìa Salentina, mi sembra di vedere delle resistenze a un esito del genere. Un vago senso di identità persiste. E, verso il griko, tende a manifestarsi un sentimento ambivalente: di distacco, perché il suo abbandono è coinciso con il superamento dei limiti economici e sociali del passato, ma, nello stesso tempo, di rammarico, perché questa lingua continua comunque ad essere avvertita come una ricchezza. Forse è necessario che trascorra altro tempo per far scomparire le connotazioni negative attribuite alla lingua dalla memoria collettiva. E, forse, attorno al suo ricordo e alla sua ricostruzione potrebbe svilupparsi un nuovo senso di identità, un nuovo “confine”, non più di comunicazione ma di richiamo storico e culturale.

Perché questo sia possibile, però, è necessario porre oggi delle fondamenta. La generazione alla quale appartengo, e che costituisce nei nostri paesi una sorta di spartiacque tra la civiltà contadina e quella industriale, tra la conservazione del griko e la sua scomparsa, ha, a mio avviso, una responsabilità e un dovere morale nei confronti delle generazioni future: quello di conservare e rendere fruibile, a chi vi si voglia accostare, il singolare patrimonio linguistico trasmesso solo oralmente attraverso i secoli. Si tratta cioè di formalizzare la lingua grika e trasferirla nella scrittura.

Tale compito (al quale cerco di dare anch’io un piccolo contributo) è stato concepito e intrapreso in realtà già verso la fine dell’Ottocento da parte di alcuni studiosi e intellettuali della Grecìa Salentina. Vito Domenico Palumbo, in particolare, ha avuto in questo un ruolo decisivo. Egli non solo ha dedicato la sua vita alla raccolta di un considerevole patrimonio di letteratura popolare (fiabe, racconti, poesie di vario genere, canti, proverbi), ma ha dato il via anche alla produzione di una letteratura colta. I suoi testi, soprattutto poetici, sono di grande valore, sia sotto il profilo linguistico che a livello artistico. Molti intellettuali, dopo di lui, hanno seguito il suo esempio, arricchendo di apprezzabili apporti la lingua grika. Sicché, quest’ultima, nonostante la sua povertà lessicale e la sua sostanziale “estrazione” popolare, può vantare anche una tradizione scritta d’autore, degna di essere conosciuta e tramandata.

Continuare e accrescere questo patrimonio, nonché renderlo disponibile per un pubblico più vasto, trovare forme idonee per far accostare ad esso i giovani e i ragazzi, trasmettere loro curiosità e interesse, coesione e senso di appartenenza, consapevolezza storica e condivisione culturale: sono tutti obiettivi perseguibili, nella direzione di un recupero identitario che un tempo la lingua aveva straordinariamente espresso e conservato.

Vorranno e sapranno le comunità grike proporseli, investendo magari le loro rappresentanze politiche, le loro istituzioni culturali? È giusto che lo facciano? Perché dovrebbero farlo? Mi piace riferirmi, per trovare una risposta alle ultime domande, al contenuto di una fiaba raccolta dal Palumbo, alla fine dell’Ottocento, da una narratrice di Calimera. La fiaba, che richiama peraltro un mito antico e universale, racconta di un bambino, nato da una relazione illegittima, che viene chiuso in una cassetta e gettato in mare. Raccolto da un marinaio, il piccolo sopravvive e viene allevato insieme con gli altri figli del soccorritore. Quando diventa giovanetto, apprende dagli scherni dei fratelli che il marinaio non è il suo vero padre. Messo alle strette, quest’ultimo gli consegna allora la cassetta nella quale erano conservati gli stracci di un tempo. Il ragazzo può partire così alla ricerca dei suoi genitori e delle sue origini, che i miti di solito raccontano essere regali.

Metaforicamente, il griko potrebbe in qualche modo essere accostato alla cassetta di stracci della fiaba. Un piccolo, vile strumento, ma indispensabile per ricercare la propria identità. Perché privare i nostri figli di questo debole filo d’Arianna attraverso cui, nel complicato labirinto del presente, essi possano ricostruire il passato e costruire se stessi?

 

1) G. AZZARONI, Sul colonialismo, in Raccontare la Grecìa. Una ricerca antropologica nelle memorie del Salento griko, a cura di G. Azzaroni e M. Cesari, Calimera, Kurumuny, 2015, p. 271.

 

    Da Fides et pulchritudo simul, Scritti in memoria di Mons. Grazio Gianfreda nel decennale della morte (2007-2017), Edizioni Grifo, 2017, pp.421-427