Moroloj 1 – Lamento funebre
Ho ritenuto di inserire come primo questo “moroloj”, del quale propongo l’audio nell’interpretazione di Francesca Licci, per offrire anche la testimonianza sonora della tradizionale nenia funebre. In realtà il testo risulta dalla fusione di due diversi “lamenti”: il primo per la morte di un giovane (le due prime strofe), il secondo per la morte di una ragazza (ultime strofe). L’intreccio di differenti, e prestabiliti, moduli poetico/narrativi in relazione alle circostanze era comunque abituale nella concreta costruzione del lamento funebre da parte delle “prefiche”.
Icha mesa to koràfimmu
mian òria rutea.
Irte ànemo ce in èrifse
ce tin èpire makrea.
Paddhikàrimmu, paddhikari,
se fonazzo ce ‘e milì.
Ijo mbike ce o fengari
itt’ammàissu pleo ‘e torì. (…)
Sto kofini tis kiatèrammu
prepan aspra ta pricia.
Irte o tànato ce is èvale
t’aspersori ce ta ciria.
Aremu, àremu, kiatereddhamu
pu se piran e pateri.
“Epù ‘e siete fiddho ats’ànemo,
kajo, mànamu, ka ‘e to tseri”.
Tis su pleni ta ruchàciasu
mes tes ise na fanì?
“Tispo ats’oli pu ettù ìmesta
‘e torìete ce ‘e torì” (…)
C’era in mezzo alla campagna
grande e bello un melograno.
Ecco, il vento l’ha strappato,
l’ha portato via, lontano.
Ragazzo, mio bel ragazzo,
io ti chiamo e non rispondi.
Il sole è andato via e la luna
l’occhio tuo non vede più. (…)
Il paniere di mia figlia
aspettava i bianchi doni.
Ma la morte ci ha infilato
l’aspersorio e le candele.
Chissà, chissà, figliola mia,
dove i preti ti han portata.
“Qui non c’è soffio di vento,
madre, è meglio non saperlo.”
Chi è che lava i tuoi vestiti,
chi ti agghinda tra le amiche?
“Tutti noi che siamo qui
non vediamo né siam visti” (…)
Il testo popolare griko è tratto da: Giannino Aprile, Traùdia (Ghetonìa, 1990), pp. 165-166
Traduzione libera di Salvatore Tommasi