Èmine korasi (Restò zitella)

 

Èmine korasi

                                                                      

Ttàzzonta o scimona mo nerò,

mo chioni, mon ànemo tsichrò,

ti ènna kami essu usi kiatera?

Kaizi ‘ttusimùddhia sti’ lumera.

 

Pianni o veloni ce satia satia

ratti mia spara c’is petà e kardia,

milì ts’ena paddhikarin atsilò

ce ‘e tis fènete makreon o cerò.

 

O veloni pratì, kui ce noà

ta loja fonarà ce ta krifà,

e dattilistra on emponni: àmone ‘mbrò

panu stus kombu ènna valin eskupò.

 

Diaenni o cerò ka tispo to’ kratenni:

o veloni mbenni, filì ce guenni.

Possu plaunu èratse e kiatera?

Us mètrise ma ‘mena usi vroscera.

 

Pìrtane deka chroni sa’ kannò

pu is fika’ t’èrcero ce to prikò.

Sìmmeri èrkete, kaizi sti’ lumera,

ce ‘en ratti pleo… kanonì in anghera.

Restò zitella

                                                                                             

Ecco che arriva l’inverno piovoso,

e porta neve ed un gelido vento:

la giovinetta, adesso, che può fare?

Accanto al fuoco sta, in casa, a sognare.

 

Ha in mano l’ago e cuce lentamente

una tovaglia, ma il suo cuore vola

e corre incontro a un alto giovanotto,

e parla e parla, e il tempo passa in fretta.

 

L’ago cammina, e ascolta compiacente

parole dette e parole nascoste;

gli fa fretta il ditale e dice: corri,

non imbrogliare il filo, fai attenzione.

 

E intanto passa il tempo, fatalmente:

l’ago s’infila, schiocca un bacio e va.

Quante lenzuola son già ricamate?

“Guarda, il braciere ti ha portato il conto!”

 

Son volati dieci anni come il fumo,

e hanno lasciato vuoto ed amarezza.

Siede ancora al braciere, la ragazza,

ma più non cuce… sta a guardare il cielo.

 

da: AA.VV., Loja j’agapi (Calimera, 1997), p. 92

Traduzione libera di Salvatore Tommasi

 

Lascia un commento