Il griko e la sua anima

 

1. Mattoni e parole

 

Diversi anni fa, fui invitato ad accompagnare ad Oria alcune classi della Scuola Media di Calimera. Era stato organizzato un gemellaggio tra le scuole delle due città e mi chiedevano di parlare ai ragazzi di Oria della nostra singolare tradizione linguistica. Durante l’incontro, quando arrivò il mio turno, per rendere più semplice il discorso, iniziai col paragonare la nostra lingua al loro castello. L’unica differenza – dissi – sta nel fatto che il vostro castello è fatto di mattoni, il nostro di parole. L’uno e l’altra, per quanto in modo diverso, raccontano la storia delle nostre comunità. Il castello, con le sue torri, i bastioni, le segrete, le sale, l’armeria; la lingua, con i suoi vocaboli, i suoni, le regole, i costrutti. Certo – dicevo – il castello risalta più facilmente ai nostri occhi, ed è più facile comprendere che, se vogliamo che esso continui a raccontarci il passato, dobbiamo conservarlo con cura, ripararlo se è necessario, custodirlo. Per una lingua è più difficile pensare a come tutto ciò sia possibile, tuttavia anche noi ci impegniamo a farlo, perché lì è racchiusa la nostra storia.

Così raccontai loro che oggi, oltre a Calimera, ci sono altri sei paesi, tra loro vicini, nei quali tuttora si parla la stessa lingua di origine greca. Un secolo fa i paesi grecofoni erano nove. Ancora prima erano quindici. E, a risalire più indietro di qualche secolo, si potevano trovare testimonianze della presenza del greco in una fascia di territorio che va dallo Ionio all’Adriatico. Di quanto si dovesse risalire indietro nei secoli per trovare l’origine di questa diffusa presenza, non lo sapevo dire. Gli studiosi – spiegai – avevano opinioni diverse. Comunque, mille anni, o duemila, o anche di più, erano sempre tanti: una storia lunghissima. Più lunga della storia del loro castello.

Raccontai anche, ai ragazzi di Oria, che la cosa più singolare della nostra lingua sta nel fatto che essa è sopravvissuta semplicemente perché trasmessa da padre in figlio, per generazioni, senza che nessuno la scrivesse più, o ne raccogliesse le parole in un vocabolario. Se qualche parola veniva nel frattempo dimenticata, la si sostituiva con quella dei vicini. Finché non si formò una lingua nuova, originale, che adesso chiamiamo griko. Ed era paradossale – osservai – che proprio l’antica lingua greca, che aveva affidato alla scrittura i tesori della sua civiltà, la sua letteratura, la sua filosofia, si fosse conservata da noi solo per trasmissione orale.

In realtà – aggiunsi – essa rappresentò la lingua della gente umile, che non sapeva scrivere, dei contadini. La gente umile è più legata alle proprie tradizioni, le ama e le custodisce con cura. Quelle popolazioni, una volta straniere, che si erano stanziate ormai da tempo immemorabile nella nuova terra, riuscirono a mantenere la loro identità attraverso la lingua, anche quando i dotti e i sacerdoti non la usarono più. Così il greco sopravvisse fino a noi, ma fu alla fine, purtroppo, identificato con le condizioni sociali dei suoi parlanti, quasi fosse esso stesso sinonimo di povertà e di ignoranza. Una lingua di cui vergognarsi, e quindi da abbandonare e dimenticare.

Finiti i discorsi, i canti, gli scambi di doni, mi si avvicinò un anziano signore. Si presentò, dicendomi che era un ispettore scolastico in pensione, invitato anche lui per la circostanza. Mi disse che aveva colto nel mio discorso un certo rammarico, quasi uno scarso apprezzamento della nostra tradizione linguistica, una sua inferiorità rispetto al loro castello. E invece sbagliavo – affermò – perché un castello è fatto di pietre, di mattoni, e questi si consumano, si sgretolano; una lingua, al contrario, è qualcosa di spirituale, come l’anima: non può deperire, è eterna.

Lo ringraziai per le sue parole, anche se, in cuor mio, considerai quelle affermazioni un gesto di cortesia, un garbato tentativo di consolazione. Sapevo bene che così non era e che la lingua in questione aveva, per così dire, i giorni contati. Che si sarebbe estinta con la mia generazione, perché alle successive non era stata più trasmessa. Che già oggi, la si parlava, sì, ma da poche persone e quasi di nascosto. In breve, di essa sarebbe rimasto solo il ricordo, e la dotta diatriba sulle sue origini, forse. Altro che eterna!

 

2. Dai filologi ai linguisti

 

La diatriba: per fortuna c’è stata una diatriba. Essa è servita a portare la nostra lingua anche nell’ambito della discussione accademica. Agli studiosi, si sa, piace porsi problemi di difficile soluzione. E la curiosa presenza nel sud dell’Italia di popolazioni che parlavano una lingua di origine greca, ancora alla fine dell’Ottocento, era certamente un problema. Appena se ne accorsero, gli studiosi, cercarono di risolverlo. “Chi sono ei questi greci?” – si domandarono. Chi era questa gente? Da quanto tempo era qui? Non c’era nessuna traccia, nessun documento storico che fornisse loro una risposta. Né tantomeno erano in grado di fornirgliela gli interessati.

Qualcuno studiò allora la strana lingua in modo approfondito: i suoni, le parole, tutto. Si chiamava Giuseppe Morosi il primo che pubblicò uno studio completo e importante, nel 1870. In mancanza di altri dati, cercò nella lingua una risposta a quelle domande. Dal suo esame egli dedusse che, con tutta evidenza, si trattava di popolazioni venute in Italia in epoca bizantina, in particolare tra il sesto e il decimo secolo. Riferisco un piccolissimo dettaglio, come esempio del suo lavoro. Un dettaglio, a volte, può essere indicativo, suggestivo, più che un elenco di prove. Per dire “Lecce” nel griko si dice “Luppìu”. Ora, questa parola deve necessariamente risalire a quando Lecce era indicata con il nome di “Lupiae”. Quindi, dopo che i Romani avevano latinizzato l’antico nome di “Λύκιαι” trasformandolo in “Lupiae” (termine presente ancora in un documento del VI secolo) e prima del X secolo, quando viene invece documentata la denominazione “Lycium”1.

A contestare le conclusioni dello studioso italiano fu, nei primi decenni del Novecento, il filologo tedesco Gerhard Rohlfs. Le ricerche da lui effettuate sulle lingue ellenofone del Sud Italia, i suoi “scavi linguistici”, come li definì, gli permisero di trovare numerosi elementi (fonetici, lessicali, grammaticali) incompatibili con la tesi del Morosi e lo portarono ad affermare che si trattava non già di lingue di origine bizantina, ma di un residuo della colonizzazione risalente all’epoca della Magna Grecia. Anche qui un piccolo esempio tra i tanti. Nel griko si indica la felce con la parola “lachri”, che deriva dall’antico dorico “βλᾶχρον”. Ora, questa parola non era più presente nel greco della Koiné, che l’aveva sostituita con “πτέρις”, e quindi non poteva essere stata portata dai bizantini, ma doveva essere preesistente2.

Ho citato questi due studiosi, tra i tanti, perché essi costituiscono dei punti di riferimento indicativi delle opposte correnti. Il dibattito, che continuò e si arricchì di numerosi contributi, si concentrò, in fin dei conti, tra le due spiegazioni, in qualche modo assolutizzandole. Anche per condizionamenti di carattere storico e ideologico, come sostiene qualcuno3.

In realtà, il recente suggerimento in merito, avanzato dallo studioso Franco Fanciullo, di superare la vecchia contrapposizione affermando l’esistenza “ab antiquo” di un bilinguismo greco-latino, e poi greco-romanzo, appare oggi la soluzione più credibile. La “simbiosi greco-romanza”, di cui egli parla, adducendo numerose prove di carattere linguistico, e la reciproca permeabilità tra le due lingue, per cui diventa oggi “difficile dire dove finisce l’una e dove comincia l’altra”4 mi sembra, infatti, descriva nel modo più appropriato le caratteristiche del griko.

Quel bilinguismo è facilmente rintracciabile, ad esempio, a fine Ottocento, nei narratori di fiabe registrati dal Palumbo. Essi riferiscono, nel bel mezzo della narrazione grika, formule in dialetto romanzo, oppure confessano di volgere in griko racconti da loro ascoltati in “latino”, come usavano dire. Se può valere, infine, lo stesso bilinguismo può essere testimoniato dai rappresentanti della mia generazione, l’ultima ad apprendere il griko come lingua materna. Da bambino, io parlavo il griko con i miei genitori, con le mie sorelle maggiori; sentivo parlare in griko i parenti, i vicini. Eppure, quando avevo cinque anni ed è nato mio fratello, tutti quanti abbiamo parlato con lui in dialetto romanzo. Come facevo a conoscere questa lingua? Chi me l’aveva insegnata? Si trattava evidentemente di una conoscenza latente, quasi inconsapevole. Con ogni probabilità era avvenuta la stessa cosa anche nei secoli passati.

Un nuovo, inatteso interesse accademico è stato rivolto, negli ultimi decenni, alla nostra lingua. Stavolta non da parte di filologi, ma di linguisti. Non si vuole indagare più la sua origine, stabilirne la data di nascita. Si vogliono invece osservare le condizioni del suo declino (“evoluzione”), le tappe della sua morte (“esaurimento”). Si sa che anche le lingue, come tutte le cose umane, muoiono. I linguisti hanno già studiato il fenomeno. Sanno come avviene, ne hanno monitorato talvolta gli stadi. Ma, si tratta di una successione regolare, universale? Vale anche per una lingua minoritaria, come la nostra? La fine di una lingua avviene per un esaurimento interno, una lenta perdita della vitalità lessicale e strutturale che la identifica? Oppure per una sorta di aggressione esterna, da parte di una lingua più forte che la sottomette e la annulla? E, in un caso o nell’altro, quali sono gli “organi vitali” che per primi vengono meno? Quali resistono di più? Sono le declinazioni ad incepparsi per prime? O le coniugazioni irregolari? I congiuntivi? O sono le cellule nuove che proliferano e soppiantano le vecchie, formando strani ibridi, alla fine letali?

Non conosciamo il risultato di tali recenti indagini, che speriamo comunque siano utili alla scienza. Esse, tuttavia, costituiscono pur sempre un gesto, per quanto amaro e quasi postumo, di attenzione culturale verso un residuo linguistico dalla ostinata, millenaria tenacia.

 

3. Le tessere e il mosaico

 

Col tempo, sono tornato a riflettere sulle parole dell’Ispettore. Non le ho trovate più così peregrine. Né semplicemente consolatorie. Del resto, ci possono essere – mi sono detto – punti di vista diversi sulla nostra lingua. Il punto di vista dello studioso è distaccato, indifferente. Il suo interesse per l’oggetto di studio finisce quando la sua curiosità intellettuale è soddisfatta, il suo problema risolto. Che esso continui ad esistere o cessi di farlo è ormai irrilevante. Per usare una metafora, allo studioso non importa la vita di una lingua, la sua “anima”, ma solo il suo “corpo”.

Ma vi è anche un altro punto di vista. Quello del testimone. Di chi con la lingua ha avuto un rapporto non solo intellettuale, ma anche emotivo. Di chi, attraverso quelle strane parole che ha ripetuto durante l’infanzia, ha costruito la propria identità. A lui importa la vita della sua lingua, la sua “anima”. E non vorrebbe che essa andasse dispersa. Perché gli appartiene come gli appartiene l’infanzia, come gli appartiene il ricordo dei genitori, e la storia delle generazioni passate, e la conoscenza dei luoghi, della terra, delle piante.

Il testimone del griko vorrebbe perciò dare alla sua lingua il respiro dell’eternità. È solo un vano desiderio, il suo, una fantasia, una chimera? O davvero anche il griko ha un’anima? E in che cosa essa consiste? Come la si può preservare?

Ci sono lingue del passato, lingue morte, che ancora ci parlano. Dopo millenni. Proprio la lingua dell’antica Grecia, molte delle cui parole continuano a risuonare nella nostra, è una di queste. Essa continua a parlarci attraverso le opere dei suoi uomini. Ci parla attraverso la scrittura. La scrittura rende una lingua immortale. Conserva la sua anima. Nella scrittura continua a vivere, infatti, non solo una lingua, ma un mondo di pensieri, di passioni, di avvenimenti. Perché la lingua non è fatta solo di parole. Le parole sono come le tessere di un mosaico. Da sole non ci possono dare la bellezza del tutto. Anche se le ordiniamo per tipologia, per colore, per dimensione, esse, una volta staccate, non sono in grado di mostrarci il disegno originario. È da quest’ultimo invece che bisogna partire. Quest’ultimo bisogna conservare.

Si possono applicare al griko le stesse osservazioni? Può una lingua “minore”, parlata da gente umile, senza pretese, una lingua solo orale, aspirare ad analoga immortalità? Può la sua “voce” essere trasformata in segni, riconoscibili e riutilizzabili? Essere conservato il suo mosaico? La sua “anima”?

Io credo che, per il testimone, tutto questo costituisca non una possibilità, ma un dovere. Si restaura e salvaguarda non solo un grande castello, ma anche una torre semidiroccata di fronte al mare. Fuori di metafora, il compito dell’ultima generazione depositaria del griko è, a mio avviso, quello di preservare e rendere accessibile alle future generazioni il suo millenario patrimonio: documentandolo e facilitandone l’approccio. Trasferendo, cioè, trasformando l’oralità nella scrittura.

Fortunatamente, alla fine dell’Ottocento, un nostro studioso, che nel contempo era anche testimone del griko, Vito Domenico Palumbo, con un’opera lungimirante e inestimabile, ha intrapreso il cammino e indicato la giusta direzione. Per quanto incompreso, forse ostacolato, egli ha caparbiamente perseguito il suo obiettivo: registrare ogni espressione della cultura popolare che in griko si esprimeva. Non solo: ha utilizzato questa lingua anche per comunicare i suoi pensieri e le sue emozioni di poeta dotto e raffinato. Il suo esempio, seguito da altri letterati, ci ha permesso di disporre oggi di una copiosa letteratura su cui lavorare. Sotto il profilo linguistico, naturalmente. Ma anche per scoprire e delineare il mondo che vi è sotteso.

Il mondo contadino: è questo il limite e la forza del griko. La sua peculiarità, la sua ricchezza. Al di là della poesia e della narrativa popolare vera e propria, anche la scrittura dei letterati ruota in definitiva attorno a quel mondo: lo descrive, lo vagheggia, lo trasfigura, ma non se ne allontana. È il mondo contadino che rivive nel suono delle parole griche, nelle espressioni idiomatiche, nelle esclamazioni, nelle imprecazioni, e negli intrecci delle storie, nella saggezza dei proverbi, nella tristezza delle nenie, nei sogni e nelle afflizioni delle poesie d’amore.

Il compito del testimone del griko, consapevole e previdente, attento ai suggerimenti della ragione oltre che ai sentimenti del cuore, sta quindi nella ricostruzione precisa, nella descrizione documentata e corretta, nella rappresentazione sincera e rispettosa di lingua e cultura. Il griko è, infatti, la lingua del suo passato, non del suo presente. Solo se accetta questa verità egli può mettersi nella giusta prospettiva ed evitare inutili e controproducenti illusioni. Evitando anche di disperdere i contributi più significativi ed i lasciti della sua storia.

 

Salvatore Tommasi

 

 

 

1) Giuseppe Morosi,  Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Lecce, 1870, p. 192.

2) Gerhard Rohlfs, Scavi linguistici nella Magna Grecia, Congedo editore, 1974, p. 165.

3) Marcello Aprile, I dialetti greci nello spazio italoromanzo: un secolo di dibattiti, in Bollettino storico di Terra d’Otranto, Congedo editore, 2008, pp. 303-310.

4) Franco Fanciullo, Fra Oriente e Occidente, Per una storia linguistica dell’Italia meridionale, Pisa, 1996, p. 38.