La lingua greco-salentina tra passato e futuro

I glossa grika: ittè ce avri.

La lingua greco-salentina tra passato e futuro

di Manuela Pellegrino (1)

 

I protinì fonì grika ka ìkusa ìane cini a’tti’ nonna Lavvretàna, ce kamìa forà mu fènete ‘nkòra ka tin ikùo. O ciùrimu, o Nicèta, ‘nvece, ’e’ kkunte Grika ‘s emèna motti imo’ kèccia; atsìkkose jatì ivò ìtela na mattèso, innèa chronu ampì. Àrtena pu ‘e’ tto’ ttorò plèo’ mâmmàddiamu, pao vrìskonta ola ta loja glicèa ka mâfise ce ka ‘e’ sozzo allimonìsi mai; ‘na frea a’sce krisò.
Na stasì kalò, tata.
I kiatèrasu, i plèo’ kèccia (2) .

 

La quistione della lingua greca dell’Italia meridionale e le sue storie.

 

Ti ene e glòssama? Pedàimmu!…

‘En i’ lloja tze chartì, …

E glòssama e’ ffonì …

Me rotà pos entzìgnase,

pos èttase ‘s emà,

is tin èfer’ etturtea….

Is to tzeri, pedàimmu!

E’ ssu ndiàzzete n’o tzeri…

E’ ffonì pu vizzàsamo

atti’ mmana …

fonì pu mas èmase a traùdia,

ce a pràmata teù, ce in agapi,

ce o kkosmo. (3)

 

Cos’è la nostra lingua? Ragazzo mio!

Non sono parole d’un vecchio manoscritto…

La nostra lingua è voce,

Tu mi chiedi qual è il suo inizio,

com’è giunta fino a noi,

chi l’ha portata da queste parti!

Chi lo sa, ragazzo mio!

Non importa saperlo

È la voce che abbiamo succhiato

dal seno di nostra madre…

voce che ci insegnava le canzoni,

le preghiere, l’amore

e il mondo.

 

Nulla sappiamo sull’origine dei paesi greci che formano ancora oggi un cospicuo complesso nella cosiddetta Grecìa Salentina. Nessun documento autorevole, nessuna cronaca, nessuna tradizione locale o popolare ci permette di stabilire neanche approssimativamente l’epoca a cui potesse rimontare questa Grecìa (Rohlfs 1980: 53).

Non serve essere esperti di griko (4) per essere a conoscenza del mistero che avvolge le sue origini. E non basta esserlo per svelarlo. Questo è un mistero che ha intrigato storici, glottologi e dialettologi sin da quando queste enclavi greche dell’Italia meridionale sono state riscoperte dal filologo tedesco, Karl Witte, nel XIX secolo. In assenza di fonti storiche conclusive (5) , la questione è diventata ‘filologica’ e gli studiosi hanno cercato di stabilire le origini di queste lingue – la lingua greco-salentina e quella greco-calabra – ricercando ‘prove’ che le mettessero in relazione con le colonie della Magna Grecia o con l’impero bizantino. Neppure le prove filologiche però hanno svelato l’arcano aldilà di ogni plausibile dubbio; il ‘dibattito sulla lingua’ rimane ad oggi effettivamente aperto e basta prendere un libro a caso che parli di griko o di grecanico per rileggere prove e contro-prove.
(…) Il mio scopo (nel presente articolo, tuttavia) non è quello di contribuire alla quistione della lingua, in termini strettamente linguistici. Infondo stabilire quando queste zone furono ellenizzate e se la lingua greca sopravvisse durante i sette secoli di presenza romana non è mai stata solo una questione filologica o storica. Ciò che mi ripropongo di fare è, invece, di mettere in evidenza il clima di romanticismo e di “fanatismi nazionalistici” – come ebbe a definirli Montinaro (1994: 12) – in cui il dibattito è stato articolato. Nella parte conclusiva del capitolo, invece, metterò in evidenza la funzione performativa del griko legata all’attuale revival. Quanto segue è una traduzione/traslazione di parti del mio dottorato in antropologia “Una lingua che “muore” o un monumento che “vive”? Ideologie, pratiche e politiche linguistiche nel caso del griko” (6).
Come il titolo stesso della tesi rivela, mi occupo di ideologie linguistiche. Lasciatemi quindi brevemente chiarire cosa intendo con ciò, prima di proseguire e sostenere che la quistione della lingua grika, così come le discussioni sull’attuale ‘vitalità’ o ‘morte’ del griko continuano ad essere un chiaro esempio di ideologie linguistiche in azione.
La tradizione di studi connessi con le ideologie linguistiche è relativamente recente e trova le sue origini in America. Per ciò che concerne il termine, con esso “gli antropologi del linguaggio si riferiscono alle interpretazioni culturali della struttura e del ruolo della lingua nella vita sociale, insieme al loro carico politico e morale” (Woolard 2008: 436) (7). Kroskrity le definisce “credenze, sentimenti e concezioni sulla struttura e l’uso di una lingua” (8) (2010: 192) comprese le sue origini. Le definizioni a nostra disposizione sono molteplici, ma tutte si riferiscono a “serie di rappresentazioni attraverso le quali una lingua è intrisa di significato culturale” (Cameron 2003: 447) (9) . Soprattutto questi studi evidenziano le relazioni tra lingua, politica e identità (Silverstein 1979; Kroskrity, Schieffelin e Woolard 1998; ma anche Hill, Gal, Irvine, Jaffe, Kulick, Blommaert) (10) .
Trovo utile fare chiarezza, a questo punto, sul fatto che le ideologie linguistiche non siano solo ideologie riguardo alla lingua, in quanto tale. Per dirla con Woolard, “attraverso esse si immaginano e si mettono in atto, appunto, i legami di una lingua con l’identità, l’estetica, la morale, e l’epistemologia” (1998: 3) (11). Il termine stesso “ideologia” ha però un lungo ed intenso passato sul quale non posso soffermarmi; seguendo Geertz (1973: 201-207) propongo di trattare ogni ideologia come un sistema culturale e, condividendo la premessa di chi si occupa di ideologie linguistiche, di considerare ogni “visione” o “opinione” sulla lingua intrisa di investimenti socio-politici e personali (Duranti 2011: 40-46). Trovo opportuno chiarire anche che quando si parla di ideologie linguistiche non si insinua che siano “idee” e quindi “non fatti”; né che alcune siano “vere” ed altre “false”. È anche per questo che, in tempi più recenti, come sottolinea Cameron (2003: 447), gli studiosi tendono ad evitare di usare termini quali “credenze” o “attitudini”; essi potrebbero trarre in inganno. Il rischio è, infatti, quello di considerare le ideologie linguistiche come “costruzioni mentali”, quando sono da considerarsi, piuttosto, delle “costruzioni sociali” (12) . In quanto tali, come sostiene Briggs non sono “meno complesse, contestate, differentemente distribuite e storicamente prodotte di altre dimensioni della vita sociale” (13) (1998: 232). Una caratteristica fondamentale delle ideologie linguistiche è, infatti, la loro molteplicità, attestata ripetutamente dagli studiosi e collegata, ad esempio a questioni di genere (Hill 1998), di posizione sociale (Errington 1998; Collins 1998) e generazione (Meek 2007, Cavanaugh 2004). Essendo un prodotto storico anche le ideologie riguardo al griko sono cambiate, si sono distribuite, sono circolate e sono state abbracciate in maniera differente nel corso del tempo. Che il griko significasse, significhi o voglia significare qualcosa di diverso a seconda delle persone o della loro età non deve cogliere di sorpresa; aspettarsi poi di trovare un’“ideologia linguistica” omogeneamente distribuita in ognuna di queste categorie – parlanti, attivisti, cultori, politici, studiosi di griko, ecc. – sarebbe fuorviante. “Ideologie linguistiche diverse costruiscono realtà alterne, addirittura opposte; creano differenti visioni provenienti da posizioni sociali e soggettività distinte all’interno di una singola formazione sociale” (14) (Gal 1998: 320). Ciò che la ricerca condotta ha confermato è che le ideologie linguistiche sono sempre investite d’interessi; la sfida è quella di discernerli mentre continuano a coesistere.
Ma ritorniamo alle origini del griko, alla quistione della lingua grika, o meglio, a quello che, come vedremo, si presenta come un “dibattito ideologico sulla lingua” (Blommaert 1999), in cui i dati linguistici sono stati adoperati per confermare le ideologie ad essi sottostanti (vedi anche Herzfeld 1997: 355). Non a caso, infatti, i filologi italiani hanno mostrato una tendenza a sostenere la “tesi bizantina”, mentre quelli greci, influenzati da un Ellenismo di tipo romantico, quella “magno-greca”.
Sappiamo bene che lo studio più sistematico su questo argomento si deve al filologo tedesco Rohlfs, che agli inizi del secolo scorso svolse una vera e propria ricerca sul campo, intrattenendosi con gli anziani del luogo, veri custodi del patrimonio linguistico del territorio. La presenza di doricismi, di consonanti geminate e dell’infinito dopo i verbi che esprimono volontà o intenzione (che è completamente scomparso nel greco moderno (15)) lo portarono a sostenere l’ipotesi “magno-greca”. Rohlfs mise anche in evidenza l’influenza del substrato greco sui dialetti romanzi del Salento (nei quali, ad esempio, l’infinito è sostituito dall’uso di strutture finite) e la lunga convivenza, fin da tempi remoti, tra i Greci e Latini all’interno di una simbiosi bilingue.
Gli studiosi greci non sono certamente stati da meno, dimostrando subito un particolare interesse per questo dibattito e propendendo a considerare il griko ed il grecanico quali continuazioni del greco antico (tra questi Caratzas 1958; Kapsomenos 1977; Tsopanakis 1968). Gli studiosi non greci e non italiani (Browning 1983; Sanguin 1993; Horrocks 1997) (16) , come riassume Manolessou (2005: 112) ritengono invece che siano continuazioni della Koiné ellenistica e che abbiano partecipato alla stessa evoluzione linguistica del resto della lingua greca fino alla fine del Medioevo. Tuttavia, la presenza nella loro struttura e nel vocabolario di alcuni arcaicismi e la ‘sopravvivenza’ di elementi dorici suggeriscono un’ininterrotta presenza greca in Italia fin dai tempi antichi.
I linguisti italiani si opposero con forza alla tesi “magno greca” (Battisti 1959; Spano 1965 fra gli altri), al punto da mettere in discussione la “salute mentale” del Rohlfs, come ci ricorda Fanciullo (2001: 69). Negli anni ‘50 e ‘60 fu proprio il linguista salentino, Oronzo Parlangeli a contestare con forza la tesi Rohlfsiana e a sostenere invece l’origine bizantina, che il linguista italiano Morosi aveva proposto sulla base delle somiglianze con il greco moderno in un suo studio datato 1870. Gli studiosi locali hanno partecipato a questo dibattito sostenendo entrambe le ipotesi.

 

Il “falso problema”

 

Fanciullo è probabilmente stato il primo a definire la controversia tra Rohlfs e i linguisti italiani come ideologica e l’intero dibattito come un “falso problema” (2001: 69), sostenendo che esso sia stato impostato partendo dal presupposto di una forte antitesi tra greco e latino. Il linguista sottolinea la forte simbiosi tra il greco e il dialetto romanzo locale (salentino) (17) alla luce dei millenni di scambio linguistico; precisa poi che il fatto che si parlasse greco, non significa che il latino non avesse raggiunto il Sud Italia, definendo il bilinguismo greco-dialetto romanzo “storico” (ibid: 73). Montinaro (2004) sostiene che quasi certamente il bilinguismo è stato lo strumento che ha permesso al griko di resistere nel tempo.
La complessità del “dibattito sulla lingua” rivela come le ideologie linguistiche siano contestate e appropriate in modo diverso in differenti momenti storici da differenti persone per scopi diversi. Non possiamo ignorare che la tesi Rolhlfsiana giungesse durante il periodo fascista, in un momento in cui, sul versante italiano, non c’era posto per ciò che non facesse parte dello spirito Italiano/Latino (Fanciullo 2001: 70). Non sorprende quindi che i linguisti italiani abbiano manifestato la tendenza a sostenere le origini bizantine di questa lingua, in quanto affermare il contrario avrebbe messo in discussione la vera ‘italianità’ di intere regioni (Sicilia, Calabria, Salento); accettare che queste avessero resistito ad una completa latinizzazione e che avessero conservato la lingua greca per secoli, dopo la caduta dell’Impero Romano, sarebbe stato in netto contrasto con l’ideologia nazionalista.
Allo stesso modo, la tendenza degli studiosi greci a sostenere la tesi “magno-greca” è al contempo un riflesso e una proiezione di un “Ellenismo di tipo- romantico”, che è stato a sua volta fondamento e perno del sorgere della Grecia come stato-nazione. È il segno dell’eredità lasciata dalla disciplina della filologia classica, istituita nel XIX secolo che, insieme all’archeologia, alla storiografia e al folklore, è stata determinante nella costruzione di un passato ininterrotto che collegherebbe l’antica Grecia a quella moderna. La ‘prova’ di questa continuità era proprio la lingua greca, che da Omero arrivava al presente nonostante le sue evoluzioni. Appare chiaro dunque come questa ideologia linguistica, in se stessa un prodotto storico, abbia indirizzato i linguisti greci anche nell’analisi delle origini delle enclavi greche dell’Italia meridionale.
Quello che poi manca, oltre, come già detto, a fonti storiche inappellabili e prove filologiche incontestate, sono racconti popolari riguardo alle origini di questa lingua o che parlino dei nostri antenati (come quelli che, ad esempio, Tsitsipis [1998] ha riscontrato tra gli Arvanites della Grecia). Parlangeli (1960) stesso chiarisce questo punto quando definisce i parlanti della lingua greco-salentina del secolo scorso come “monoglotti”, nel senso che ignoravano la storia greca e il greco come lingua del passato e di cultura. I meno istruiti non sapevano neppure che la loro lingua fosse di origine greca (Dizikirikis 1968 citato in Manolessou 2005). Ciò indica una generale mancanza di coscienza storica; la consapevolezza del glorioso passato ellenico era ristretta al mondo degli intellettuali, come vedremo successivamente, prendendo in esame l’attività del cenacolo filellenico di Calimera degli inizi del XX secolo.
Quello che mi preme sottolineare è la modalità attraverso la quale questa ideologia linguistica sia stata prodotta e riprodotta, ossia attraverso l’attenzione che gli studiosi hanno riservato a questa quistione. Spesso, forse a Sternatia più che altrove, la gente fa riferimento agli studiosi stranieri, soprattutto greci, venuti a condurre studi sul griko. Più di recente, attraverso il revival del griko, gli abitanti del posto sono costantemente informati – ‘rammentati’ per così dire – delle antiche origini di questa lingua. Petropoulou (1995) fornisce la stessa riflessione riguardo ai parlanti di grecanico della Calabria, che si sono appropriati del discorso riguardo alle antiche origini della loro lingua, proposto da un prete ortodosso alla fine degli anni ‘60, e che ripropongono quando sostengono di parlare come Omero.

 

Uno sguardo diacronico: bilinguismo storico e i confini ‘mobili’ della Grecìa Salentina

 

Il glottologo Morosi visitò i paesini della Grecìa Salentina nel 1867. Il suo lavoro ci fornisce una fotografia del linguaggio ramo (Languagescape) (18) della Grecìa Salentina subito dopo l’unificazione d’Italia: è un momento di cambiamenti socioculturali che interrompe una situazione, forse solo percepita, di continuità e isolamento. Nel descrivere il panorama linguistico del tempo, Morosi faceva riferimento al processo di forzata unificazione linguistica e al potere distruttivo dell’italiano che lo portò a ipotizzare la scomparsa del greco-salentino due generazioni dopo (Morosi 1870: 172). Lo studioso aggiungeva che già allora era difficile individuare chi parlasse solo il griko ed osservava che “gli uomini tutti, per le necessità del commercio cogli Italiani (o, com’essi dicono, coi Latini) sanno e usano a tutto pasto greco e italiano, sicché questi per istrazio li chiamano uomini di due lingue” (Morosi 1870: 182). Il suo riferimento all’italiano sembra però fuorviante: “uomini di due lingue” significava, nella gran parte dei casi, gente che parlava il griko e il salentino; ciò, a sua volta, era dovuto al prolungato contatto con l’ambiente romanzo, che si sarebbe poi intensificato nel XIX secolo, quando le comunicazioni con i paesi limitrofi migliorarono e quando, attraverso il commercio e lo scambio, i grikofoni furono portati ad imparare ed usare sempre più il dialetto romanzo.
Il contatto linguistico (19) protratto nel tempo, era tuttavia di natura multiforme e portò a livelli differenziati di bilinguismo e ad una vera e propria “interferenza linguistica”. L’area grika si andò gradualmente riducendo dall’area che nel Medioevo comprendeva tutta la penisola Salentina fino alla linea Taranto – Brindisi, anche se non è stato determinato se fosse abitata da una popolazione mista griko – romanza. Così scriveva il Rohlfs (1980: 54):

una zona che cinque secoli fa comprendeva ancora la zona di Gallipoli e Nardò, arrivando quasi alle porte di Otranto […] Intorno al 1500 la Grecìa salentina abbracciava ancora 24 paesi che man mano sono andati riducendosi a 15 alla fine del Settecento, per ridursi ancora di più da 15 a 8 paesi nei nostri tempi.

Secondo il Rohlfs i grikofoni del Salento non erano dei “corpi estranei” che nulla condividevano con i paesi limitrofi – a differenza della comunità albanese della provincia di Taranto o di quella franco-provenzale della provincia di Foggia, ad esempio, che mostravano una forte e distinta identità etnica e culturale. Furono poi alcuni fenomeni linguistici che collegano intimamente i dialetti greci della Grecìa a quelli romanzi fino alla linea Brindisi-Taranto (20) che portatono il Rohlfs a parlare di una situazione di simbiosi bilingue tra Greci e Latini da tempi assai più antichi rispetto alle colonie albanesi ad esempio (ibid). Ciò indicherebbe quindi un periodo di convivenza molto più lungo (anche se non fornisce una data specifica, come precisa Manolessou 2005: 119) e un’esemplare integrazione di culture e lingue. Le informazioni a noi disponibili confermerebbero che i grikofoni, infatti, non si consideravano ‘etnicamente’ diversi (nel senso moderno del termine) da chi parlava il dialetto romanzo.
Quando si parla di prolungata convivenza greco-romanza e/o di simbiosi non si intende sostenere che l’impatto e la penetrazione del bilinguismo sia stato uniforme o simultaneo nei vari paesi, né tantomeno ciò implica che il bilinguismo fosse anche nei singoli paesi distribuito allo stesso modo. Infatti, la nozione potrebbe essere fuorviante, se con ciò si intendesse un uso diffuso e indifferenziato di entrambe le lingue. “Bilinguismo storico” si riferisce quindi ad una storica co-presenza di greco e dialetto romanzo in quest’area. Parlangeli (1952) sostiene che a Martano e Zollino questa co-presenza è attestata dal XVI secolo, mentre a Sternatia e Soleto si parlava solo griko. Questo evidenzia l’eterogeneità del fenomeno del bilinguismo storico e la diglossia interna alla zona di lingua grika, in cui i paesi che presentavano bilinguismo e diglossia (21) si trovavano accanto a quelli monolingue.
Come chiarisce Grassi (1993), stati di bilinguismo o diglossia assoluti esistono solo in teoria. La realtà presenta invece diversi gradi di competenza nelle due lingue – tra cui la competenza passiva – all’interno di paesi bilingue o diaglossici; ciò sarebbe collegato ad una serie di variabili, tra cui l’occupazione e il genere (la borghesia colta sarebbe stata più vicina al bilinguismo, mentre i contadini e gli appartenenti a classi sociali “inferiori” sarebbero stati più probabilmente monolingue (griko) o immersi in una situazione di diglossia). Il riferimento di Morosi alla “gente di due lingue” deve essere dunque letto alla luce di questa osservazione; inoltre, egli stesso sottolineava una variazione di comportamento linguistico legata al genere, sostenendo che le donne fossero più restie ad abbandonare il griko rispetto agli uomini “per le loro abitudini più casalinghe e per il loro affetto più tenace alle consuetudini degli avi” (1870: 182). La resistenza delle donne ad abbandonare il griko sarebbe quindi legata non solo alla limitata partecipazione sociale delle donne al di fuori della famiglia, ma anche al loro forte attaccamento alla lingua.
Considerazioni analoghe si trovano anche con riferimento alla situazione sociolinguistica all’inizio del XX secolo. Domenicano Tondi (1935), un appassionato e studioso di griko di Zollino, mise in evidenza che la competenza linguistica in griko variava a seconda della classe sociale, dell’occupazione, dell’età, e del genere. Tondi faceva anche riferimento ai matrimoni tra madrelingua di griko e di salentino, che avrebbero portato chi non era di madrelingua grika ad imparare questa lingua, ma a soccombere alle proprie lacune linguistiche introducendo spesso parole del dialetto salentino. Quest’ultima osservazione mi porta a trattare d’interferenza linguistica, ossia della cosiddetta “romanizzazione linguistica” o “latinizzazione” del griko.
L’“interferenza linguistica” è uno dei fenomeni più comuni di contatto linguistico e si riferisce agli effetti linguistici provocati dal contatto tra lingue che si influenzano a vicenda in maniera più o meno evidente. Si tratta di un tipo di sovrapposizione linguistica nella quale “due sistemi linguistici sono al contempo applicati ad un unico elemento” (Haugen 1956: 50 in Woolard 1999). Il carattere greco dei dialetti meridionali estremi è, infatti, dovuto all’interferenza del sottostrato greco. Si tratta però di un processo reciproco. “L’irresistibile influenza del dialetto romanzo” (Profili 1985, Manolessou 2005) è evidente se si guarda ai cospicui prestiti strutturali e lessicali che facevano presagire una progressiva ‘romanizzazione/latinizzazione’ del griko. Sobrero (1979) – facendo riferimento agli studi del Morosi – fa notare una cospicua interferenza grammaticale a tutti i livelli (lessicale, morfo-sintattico, fonologico) già verso la fine del XIX secolo; l’interferenza dei due sistemi ha dato origine a “forme miste” (Sobrero 1980: 398), il risultato dell’adattamento grammaticale dei prestiti del dialetto salentino. Gli studiosi parlano di “mistilinguismo” (language mixing or intertwining) per descrivere il particolare tipo di linguaggio di contatto, in cui “due lingue si intrecciano in modo tale che (di solito) la grammatica di una lingua è innestata sul vocabolario dell’altra o viceversa” (Sebba 1997: 16 in Garret 2004: 62). Va da sé che non è semplice tracciare una netta linea di demarcazione tra prestito, interferenza ed altri processi di contatto linguistico (Garrett 2004; Woolard 2004; Milroy e Muysken 1995). Woolard (1999: 15, 16), pur riconoscendo che il termine stesso contiene implicitamente un giudizio prescrittivo, considera l’“interferenza” una forma di “ibridismo” e – riferendosi ad Hill e Hill 1986 – una forma di sincretismo.
Ibridismo e sincretismo sono concetti strettamente collegati. Il termine sincretismo è importato dalla storia della religione, ma è stato applicato a diverse discipline; in linguistica viene definito come “la soppressione di un’opposizione rilevante in determinate condizioni” (Kurylowicz 1964 in Hill 2000: 244), come l’opposizione che distingue il Mexicano dal Castigliano, ad esempio. Hill e Hill (1986) hanno dimostrato la pratica sincretica in atto fra i parlanti di Mexicano (una lingua uto-azteca del Messico centrale) riconoscibile a tutti i livelli della produzione linguistica. A partire dai due poli opposti, Mexicano e spagnolo, questa pratica crea un continuum fra l’espressione “più Mexicana” e quella “più spagnola” (si veda anche Hill 2000: 245), permettendo ai parlanti di Mexicano di rendere la forma spagnola “depende” nel mexicano “dependerihui” [dependeriwi] ad esempio. Allo stesso modo, l’infinito “pensare” è adattato alla grammatica grika e diventa pensèo, con la desinenza “eo” della prima persona singolare. Il sincretismo formale potrebbe anche causare convergenza morfologica e sintattica (Urciuoli 1995). Manolessou (2005: 108 nota 6), dubita tuttavia che il processo di romanizzazione avrebbe mai portato la lingua greco-salentina ed il salentino a diventare indistinguibili, ritenendo invece molto più probabile la ‘scomparsa’ del griko a causa del disuso.
Cerchiamo quindi di contestualizzare il riferimento al griko come ‘lingua bastarda’. Non è possibile stabilire con certezza quando questa espressione iniziò ad essere utilizzata fino ad essere interiorizzata ed ulteriormente diffusa dagli stessi grikofoni; sembrerebbe però plausibile farla risalire al XIX secolo, tenendo conto del progressivo processo di interferenza del dialetto salentino sul griko, che si sarebbe intensificato verso la fine del secolo. Questa espressione ha continuato ad essere utilizzata durante il XXI secolo ed ha perso la sua centralità in tempi relativamente recenti. Un simile riferimento, “grecu scorrottu”, probabilmente nella duplice accezione di “corrotto” e “scorretto”, si trova negli scritti d’intellettuali locali nel XX secolo (Il Gruppo di Lecce 1979: 359), che però rifiutavano questa definizione difendendo la purezza del griko.
Il termine ‘bastardo’, se riferito ad animali e piante, indica delle specie miste. Se considerato aldilà degli ambiti della biologia e della genetica e usato con riferimento alle persone, ‘bastardo’ significa ‘non legittimo’, come ad esempio nel caso di un figlio nato fuori dal matrimonio. Allo stesso modo un linguaggio ‘bastardo’ è il risultato della ‘fusione’ di due lingue – nel caso in esame si riferisce all’interferenza del dialetto salentino sul griko. L’implicita connotazione peggiorativa del termine è strettamente legata all’ipotetica ‘purezza’ delle due forme, se considerate separatamente; un linguaggio bastardo – come un animale o una persona – manca quindi di purezza. Stewart ripercorre la genealogia del termine “ibrido” e osserva che “la parola deriva dal greco antico, dove significava la prole di una scrofa addomesticata e di un cinghiale” (Stewart 1999: n.5, 45) (22). L’antropologo osserva che nel XIX secolo al termine è stata conferita un’accezione razzista, nel momento in cui esso è stato usato per elaborare teorie sui rapporti umani, di tipo sociale (tra padrone e servo) o biologico (tra ‘razze’), nelle quali per “ibrido” si intendeva “debole” e “sterile”. Al giorno d’oggi il termine può essere inteso semplicemente come “mix, incrocio tra due cose”. Le parole vivono, però, vita propria e sembra che ibrido abbia in gran parte perso la sua accezione negativa e nel pensiero post-moderno lo stesso concetto di mix/fusione è stato rivalutato, se non addirittura celebrato. Il legame tra il termine bastardo e ibrido risulta evidente se si considera la prima vita della parola ibrido. Il termine bastardo, tuttavia, non è stato elevato ad indicare qualcosa di positivo ed il suo uso è rimasto circoscritto alla propria accezione peggiorativa.
Termini come ibrido e bastardo portano alle mente nozioni di ‘purezza’ e ‘inquinamento’. Attraverso l’analisi dell’operato di un cenacolo di intellettuali locali di Calimera a cavallo tra il XIX e XX secolo, proposto di seguito, suggerirò che queste nozioni non si riferiscono solo alla lingua, ma che facciano parte della percezione di una crisi sociale, in cui il passato è rappresentato come ‘puro’ e si scontra con la presentazione della nuova realtà, raffigurata appunto come ‘ibrida’. Questa discussione metterà in luce la tensione tra metadiscorsi intellettuali e popolari sul linguaggio, e mi porterà a sostenere che lungi dall’essere solo una lotta locale contro un ordine sociale in cambiamento, l’orientamento ideologico di fondo del cenacolo di Calimera è invece ben inserito in dinamiche nazionali e transnazionali.

 

Una ‘lingua bastarda’ e una ‘realtà ibrida’: il cenacolo filoellenico di Calimera

 

Vito Domenico Palumbo (1854-1918) di Calimera è il più illustre ellenista e, probabilmente, il principale studioso locale: giornalista, filologo, folklorista e poeta si dedicò alla raccolta della letteratura popolare orale in lingua greco-salentina. Palumbo fu anche amico di Nicolas Politis, il padre degli studi moderni di folklore greco. Politis fu “il più caro tra gli amici greci per la lunga e scambievole stima e per fraterno affetto” (Stomeo 1958: 14); i due condividevano un interesse ed un impegno comune per il folklore, attraverso la raccolta di canti popolari e poesie, e la reciproca corrispondenza ne dimostra le affinità intellettuali. Palumbo fu il padre del cenacolo di intellettuali filoellenici di Calimera emerso verso la fine del XIX secolo. Intellettuali locali come Giuseppe Gabrieli, Pasquale e Antonio Lefons, Brizio de Sanctis – per citarne solo alcuni -, raccolti intorno a Palumbo, si dedicarono allo studio e alla conservazione del griko e delle tradizioni locali. Incoraggiati dall’interesse dimostrato da prestigiosi studiosi greci si riproposero di ridare nobiltà al griko; si trovarono, tuttavia, in una posizione controversa: se da un lato non potevano negare l’influenza/interferenza del dialetto sul griko, dall’altra si ribellarono apertamente al riferimento al griko come lingua ‘corrotta’, ‘bastarda’. Il griko presentava e rappresentava un’ “anomalia”, una “cosa fuori posto”, in “uno stato a metà tra solido e liquido, una sezione in un processo di cambiamento” (Douglas 1966: 39) (23). In altre parole, il griko era un ‘ibrido’ e, quindi, simbolicamente ‘inquinato’. Nel tentativo di dimostrare il prestigio della lingua, il cenacolo di Calimera ha dovuto difendere la sua ‘purezza’.
Uno dei processi semiotici attraverso i quali le ideologie si manifestano nella lingua è stato definito, dalle antropologhe del linguaggio Gal e Irvine, “soppressione” (erasure) e si riferisce al processo in cui l’ideologia, semplificando il campo delle pratiche linguistiche, rende invisibili alcune persone, attività o fenomeni sociolinguistici […] gli elementi che non si adattano a quella struttura interpretativa, o che non vengono considerati adatti, devono essere trasformati, oppure essere ignorati (Irvine e Gal 1995: 974) (24).

Attraverso questo processo semiotico la complessità sociolinguistica viene quindi “soppressa”, e gli elementi che non sono coerenti con una certa ideologia dei parlanti o dei linguisti vengono ignorati, ridotti o eliminati. Irvine e Gal fanno riferimento a tale processo nel contesto del trattamento delle lingue senegalesi da parte dei linguisti europei nel XIX secolo. La “soppressione” del multilinguismo e della variazione linguistica era ritenuta necessaria al fine di produrre mappe linguistiche analoghe a quelle europee. Si tratta, in altre parole, di ‘semplificare’ e quindi selettivamente rendere ‘invisibili’ quei fatti che sono d’intralcio ad una data ideologia linguistica e quelle pratiche linguistiche che non rientrano nei dati canoni prescrittivi. Tornando al caso specifico è la centralità del griko quale lingua ibrida e quindi l’influenza del dialetto romanzo che devono essere selettivamente ignorate. Una semplificazione linguistica che è al contempo ideologicamente e culturalmente rilevante. Mary Douglas (1966: 163) osserva, tuttavia, che “il paradosso finale della ricerca della purezza è che chi fa il tentativo di trovarla, si ritrova in contraddizione”. Di seguito metterò in evidenza queste contraddizioni, come anche che la ‘ricerca di purezza’ da parte di questi intellettuali trascende questioni puramente filologiche.
Morosi (1870) aveva notato che l’abbandono del griko era legato agli effetti della “forzata unificazione linguistica” e al momento di transizione in cui i paesini di lingua grika si aprivano progressivamente ai paesi limitrofi. Tuttavia, lo studioso sembra aver sottovalutato – come nota Cantelmo, Gruppo di Lecce (1980: 356) – che questo fenomeno era anche legato al prestigio della lingua nazionale. Il griko era, in fatti, abbandonato da “quelle famiglie che salgono in auge, desiderando esse distinguersi dal popolino, con la speranza di far dimenticare la loro origine plebea” (Lefons, citato in Il Gruppo di Lecce 1979: 356). L’abbandono del griko fu, dunque, percepito come un lasciapassare per la mobilità sociale: parlare italiano (o meglio, una forma ibrida di italiano e salentino) li avrebbe fatti avanzare nella scala sociale.
Qui troviamo un parallelismo con la tesi di Stewart (1989: 79) riguardo alla posizione del “soprannaturale” (Exotikà) nella Grecia moderna. L’antropologo fa notare come la classe sociale più bassa inizia a rifiutare credenze, quali quelle legate ai demoni e alle fate, in quanto vengono percepite come segno di arretratezza, essendo in contrasto con il modello della scienza naturale, adottato dalla classe media istruita. In questo modo, la classe inferiore comincia a fondersi con la classe media; questo è il momento in cui quest’ultima avverte l’esigenza di differenziarsi e comincia ad interessarsi attivamente al “soprannaturale”. Stewart analizza questa relazione dinamica ricorrendo alla nozione di “distinzione” utilizzata dal sociologo francese Bourdieu (1984): i gruppi sociali già distinti per ricchezza e potere, tendono a distinguersi ulteriormente adottando uno “stile” diverso. Il soprannaturale viene così elevato a forma di “capitale culturale”, trasformandosi da segno di ignoranza dei contadini a un segno di “distinzione” della classe media nel XX secolo. Stewart sostiene che la classe inferiore è invece coinvolta nel paradosso di Zenone: immaginiamo che Achille (la classe subordinata) sia sfidato nella corsa da una tartaruga (la classe media) e che le conceda un piede di vantaggio. Nonostante Achille sia molto più veloce, nei termini del paradosso, egli riuscirebbe solo ad avvicinarsi alla tartaruga, ma mai a raggiungerla. “Così come Achille non è mai in grado di raggiungere la tartaruga, così la classe contadina che avanza non è mai del tutto in grado di raggiungere il ceto medio. Questa consegue con successo i traguardi che la classe media ha appena lasciato alle spalle” (Stewart 1989: 98).
Lo stesso vale per il caso in questione: non è una coincidenza che sia stato il ceto istruito a rivalutare il griko proprio nel momento in cui i reali depositari di questa lingua cercavano invece di disfarsene (per simili considerazioni, si consultino Manolessou 2005; Kuter 1989; Telmon 1993). Non appena i parlanti di griko iniziarono a rinnegare questa lingua, percepita come segno di arretratezza, per poter così avanzare e raggiungere la tartaruga, la classe media istruita invece cominciò ad innalzare la lingua ad espressione di capitale culturale e ad indice simbolico di distinzione. Ritroviamo il paradosso di Zenone: Achille si avvicinerà alla tartaruga all’infinito, senza mai raggiungerla. Il periodo iniziale di attività degli intellettuali di Calimera era davvero un momento di rapidi cambiamenti sociali. L’Unità d’Italia significò una rottura tra gli strati sociali alti e bassi in tutta la nazione. L’interesse per il griko degli intellettuali simboleggia, dunque, anche la crisi dei ruoli sociali che stavano vivendo (Gruppo di Lecce 1979). Facendo riferimento a un passato non specificato, Palumbo scrive:

Altri tempi, quelli, altra vita. Allora vi era più semplicità, più schiettezza, e maggior comunione spirituale tra il signore e il popolano […] Pure nonostante la maggiore familiarità, anche vivendo d’una vita spirituale comune, signori e popolani, rimanevano distinti: perché il popolano, che ne riconosceva il valore, sentiva la differenza tra sé e il signore, e anche nella concessagli familiarità lo rispettava, mentre il signore, a sua volta, pur non disdegnando la comunione, colla sua dignità semplice e affabile, si faceva naturalmente rispettare ed amare nel tempo stesso (Palumbo 1900 in Gruppo di Lecce 1980: 360-361).

I rapidi cambiamenti che si verificarono, furono percepiti come un pericolo per il proprio ruolo sociale e il potere. L’opposizione ideologica tra purezza e carattere ibrido della lingua è così proiettata sul piano sociale, diventando una contrapposizione tra “gentiluomini di razza” (purezza) e i “valentuomini nostri (chiamiamoli cosi)” (Palumbo: 1910: 271 in Gruppo di Lecce 1979: 359), vale a dire coloro che avanzavano nella scala sociale, l’emergente classe ‘ibrida’ che iniziava a rifiutare il griko. Inoltre, la citazione sopra riportata mostra come la dicotomia purezza/carattere ibrido si inserisca anche nella percezione del passato e del presente: nella percezione ideologica di un passato ‘puro’, il presente viene percepito come qualcosa “fuori posto”.

La vita moderna piena di asprezze, di schianti, d’ire, di rancori, non è compatibile colla vita idillica che essa [Calimera] trascorse in pace nei secoli passati, quando, nella quiete placida della vita campestre, quasi arcadica […] essa come gli altri nostri paesi greci, visse una lieta e soleggiata vita di idillio (Palumbo 1900, citato in Gruppo di Lecce 1980: 359-360).

Gli scritti del cenacolo di Calimera, intrisi di un’atmosfera idilliaca e una rappresentazione pastorale del passato, sono modellati su canoni letterari che indicano il rifiuto di una ‘vita moderna’ percepita come destabilizzante (Il Gruppo di Lecce 1979). Come direbbe Douglas (1966: 163), “la purezza è nemica del cambiamento, dell’ambiguità e dei compromessi”. In difesa della purezza e della nobiltà del griko, accusarono i “valentuomini nostri (chiamiamoli cosi)” di disdegnare il griko considerandolo “corrotto” (scorrottu, Salentino), e inducendo così anche i contadini ad abbandonarlo (Il Gruppo di Lecce 1979: 359). Per dargli prestigio, cercarono di ricollegare la lingua ad un passato lontano.
È quanto emerge dalla conferenza tenuta da Palumbo ad Atene (Sala Parnasso) nel 1883, quando fu invitato a parlare “Intorno alla colonia greco-salentina dell’Italia meridionale”. Nel suo discorso egli sottolinea che nel Sud Italia sono presenti dove “tracce dell’ellenismo italico, dove quelle del bizantino, e dove si trovano tutte e due insieme abbondantemente” (in Stomeo 1958: 59). Poi fa cenno alle origini della lingua e della sua gente, ribadendo che si verificarono migrazioni bizantine provenienti da luoghi diversi e in momenti diversi e suggerendo che qui potrebbero aver trovato resti di popolazioni della Magna Grecia (in Stomeo 1958: 77. Ricordo al lettore che la tesi magno-greca fu formulata dal Rohlfs nel 1920). Palumbo poi si riferisce con orgoglio alla lingua greco-salentina quale “vivente monumento dell’antico ellenismo nell’Italia” e chiede “alla madre Grecia” di aiutarlo a fondare una scuola a Calimera al fine di mantenerlo in vita, mentre rassicurava il pubblico che l’Italia non avrebbe avuto obiezioni, in quanto la colonia greco-salentina “rifiorendo, sarebbe un ornamento di più per la bella e grande madre Italia” (in Stomeo 1958: 84).
Il tentativo è quello di ritrarre il griko “come l’estrema sopravvivenza della civiltà greco-classica” rendendo “il mito di una grecità ancor viva, perenne” come sostenuto da Cantelmo, Gruppo di Lecce (1980: 358). La matrice romantica di questo atteggiamento è chiara e questo ci riporta alla dimensione ideologica del “dibattito sulla lingua” al quale ho fatto riferimento in precedenza. Questi intellettuali locali hanno seguito “una tradizione filoellenica che ha caratterizzato l’ideologia della classe ‘colta’ del paese dall’Unità d’Italia in poi e ha rappresentato, infatti, il legame tra la periferia e il centro della cultura nazionale (Il Gruppo di Lecce 1979: 354-355). Essi erano studiosi locali istruiti tuttavia nei centri più attivi della cultura nazionale della fine del XIX secolo (Firenze, Roma e Napoli), e parteciparono e trassero ispirazione dalla tradizione umanistico-classica (ibid: 354-358). Al tempo stesso, temevano possibili effetti destabilizzanti che la lingua nazionale poteva causare a livello locale e cercarono di dare al griko lo stesso capitale simbolico della lingua greca. Tuttavia, la “natura intellettualistica e riflessa [che] contrasta drammaticamente con il comportamento linguistico delle classi sociali” (Sobrero 1974: 77, enfasi nell’originale) provocò il fallimento di questo tentativo di recupero. Il divario tra l’ideologia della storia e della lingua promossa da questi intellettuali e gli affanni degli strati inferiori della popolazione è evidente. L’immagine romantica del griko non era determinante per la maggior parte dei grikofoni, né implicava alcuna ricompensa morale o materiale. L’ideologia promossa dal cenacolo di Calimera non raggiunse il ‘popolo’ e non ne alterò le pratiche linguistiche; non impedì, infatti, la deriva linguistica del griko che continuò a perdere gradualmente funzioni assunte dall’uso del salentino prima e dell’ italiano poi.
Partendo dalla tesi del Gruppo di Lecce e andando un passo oltre, a mio avviso il cenacolo di Calimera non rappresenta solo il legame tra centro e periferia d’Italia. I contatti tra Palumbo e gli intellettuali greci sono altrettanto cruciali. Palumbo e il suo cenacolo seguirono i passi dei folkloristi, dei filologi e degli intellettuali greci, intenti a fornire prove del legame tra Grecia antica e moderna. Definendo il griko il “vivente monumento dell’antico ellenismo nell’Italia” Palumbo, e gli intellettuali locali a lui vicini, abbracciarono quella stessa ideologia romantica di ellenismo. Il cenacolo di Calimera rappresenta quindi il primo esempio di interazione tra ideologie linguistiche locali, nazionali e transnazionali e rivela la dinamica produzione, riproduzione e ulteriore diffusione di una data ideologia linguistica. Fu il primo tentativo di ‘infondere vita’ al griko: il primo revival (25).

 

Il griko, tra passato e futuro

Primavera 2008

O grìkomma pèsane?
Refrìsko n’àchi.
Ce ‘mì pu gràfome grika,
ìmesta pesammèni?
Esì ka mas meletàte pesànato?

 

Il nostro griko è morto?
Che riposi in pace.
E noi che scriviamo in griko
siamo morti?
E voi che ci leggete, siete morti?
Paolo Di Mitri (26)

 

È un dato di fatto che i grikofoni, furono vittime della “violenza simbolica” (Bourdieu 1980) esercitata dall’italiano quale lingua nazionale, del ‘futuro’ e di accesso alla modernità, che li portò a non trasmettere il griko ai propri figli (27). Questa dinamica non fu però semplicemente linguistica, ma fu soprattutto dovuta ad un cambiamento ‘esistenziale’ dei grikofoni e dei salentini che favorì il passaggio da una visione del mondo tradizionale ad una moderna; ciò mediò quindi una rivalutazione e auto-ridefinizione dei valori e degli obiettivi dell’intera comunità, che fu poi codificata attraverso il linguaggio (Kulick 1992): l’italiano appunto, e in una fase intermedia, il dialetto.
Il griko sembra, tuttavia, aver sfidato ogni pronostico. L’economia politica di questa lingua è, infatti, cambiata in maniera drastica negli ultimi 20 anni: oggi il griko gode di un fascino senza precedenti, un fascino che prescinde dal suo limitato uso come lingua di comunicazione. Aldilà delle evidenti differenze, ciò che accomuna il primo revival a quello attuale è proprio l’interazione tra ideologie e politiche linguistiche locali, nazionali ed internazionali, questa volta promosse dall’Unione Europea e dalla Grecia. Le dinamiche dell’attuale revival rivelano di fatti come questo si rivolga e allo stesso tempo sia parte di un discorso globale, in cui il riconoscimento dei diritti linguistici (si veda la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, 1992, e la legge nazionale 482, 1999 (28)) e la celebrazione da parte delle istituzioni europee della nozione di “unità nella diversità” (McDonald, 1996) diventano il trampolino di lancio per l’articolazione di rivendicazioni locali.
La disponibilità di strumenti giuridici a livello nazionale ed europeo, con il loro contributo sia finanziario, sia simbolico, ha di fatto contribuito a cambiare radicalmente il “linguaggio-ramo” locale in modo multiforme, favorendo un revival che continua a portare effetti inaspettati e imprevedibili ripercussioni per l’intera area, aldilà dei confini dei paesini di lingua grika e al di là del griko stesso. La rivalutazione del patrimonio culturale locale, griko compreso, ha gradualmente portato ad una ‘rivoluzione turistica’ o come direbbe Di Mitri, una “rivoluzione territoriale” (2007:28). L’attenzione mediatica, e non solo, rivolta al griko e alla “pizzica” (29) ha di riflesso dato alla Puglia in generale una popolarità che non conosceva, attirando un numero crescente di turisti e mettendo sotto i riflettori ciò che era fino a non troppo tempo addietro, il finibus terrae d’Italia. Il griko, l’eterna lingua in agonia, ha quindi in realtà vissuto molteplici ‘vite’: è passato dall’essere considerato lingua bastarda per via dell’interferenza del dialetto, e lingua della vergogna, a causa del potere simbolico dell’italiano, a ri-diventare “un monumento vivente dell’ellenismo”, grazie all’attenzione da parte della Grecia e alla retorica globale della diversità come ricchezza.
Ena zondanó mnimeío tou Ellinismoú (un monumento vivente dell’ellenismo): è così, infatti, che ho spesso sentito i miei informatori greci, appassionati di griko, riferirsi a questa lingua (30).
E qui ritroviamo in atto lo stesso processo semiotico di “soppressione” di cui sopra: il griko, chiaramente, non corrisponde al greco antico; inoltre, griko e greco moderno non sono mutuamente intelligibili. Ciò nonostante molti tra gli appassionati greci di griko possono ‘cogliere’ le sue caratteristiche arcaiche e, con uno sforzo per superare le differenze di pronuncia, possono capire il significato di frasi semplici. Le forme arcaiche/arcaizzanti del griko vengono, dunque, selettivamente scelte come ‘prova’ del legame con il passato e di quella sospirata continuità dell’ellenismo dall’antichità ai giorni nostri. Il carattere ibrido del griko, dovuto alla presenza di prestiti o adattamenti dal salentino o dall’italiano, non è e non può essere negato; la sua importanza e significato sono tuttavia, negoziati e in gran parte ideologicamente giustificati, in quanto andrebbero a minacciare l’ideologia linguistica dell’ellenismo, culturalmente abbracciata. Non va dimenticato che il purismo linguistico era alla base della katharevousa, una lingua volutamente ‘ripulita’ dall’inquinamento dell’influenza turca (vedi Herzfeld 1987, 1997). Il griko è ‘contaminato’ ma l’assenza dell’influenza turca (ovvero del fantasma del passato ottomano) lo rende allo sguardo dei miei interlocutori greci ‘meno contaminato’; la sua ‘sopravvivenza’, per un millennio o millenni a seconda delle teorie, in zone remote dell’Italia meridionale, senza alcun intervento da parte dello stato greco, viene considerata la prova del vero valore e della persistenza dell’ellenismo. Questo è il discorso che affascina quella parte della popolazione greca sensibile a questo tipo di ‘orgoglio nazionale’ che se ne fa poi portavoce. Non bisogna, infatti, sottovalutare il ruolo che svolge nella diffusione a livello locale dell’ideologia linguistica che celebra il griko come monumento vivente dell’ellenismo.
A livello locale, il griko poi, nonostante le tante ‘cronache della sua morte annunciata’, non ha mai smesso di rappresentare una risorsa, linguistica per sempre meno persone, una risorsa sociale e culturale per i più, ora. Così com’è avvenuto riguardo al ‘passato’ del griko, anche le tante discussioni/previsioni sul suo ‘futuro’ e sulla sua ‘vitalità’ forniscono un esempio di ideologie linguistiche in azione. Essendo diventato il catalizzatore di molteplici rivendicazioni locali il griko è oggi la lingua dell’orgoglio, del riscatto. L’interazione di ideologie e politiche linguistiche locali, nazionali e transnazionali ha infatti trasformato le concettualizzazioni locali sul griko, e soprattutto l’auto-percezione e presentazione di questa comunità, mentre il pericolo di una strumentalizzazione del revival ha prodotto critiche, ambiguità e contraddizioni all’interno della comunità in generale. Chi si aspettasse però di ‘sentire’ il griko per le vie della Grecìa Salentina rimarrebbe deluso; che il griko, nonostante l’attuale revival, non sia una lingua di comunicazione quotidiana se non per pochi non deve però sorprendere, in quanto dipende dalla sua stessa travagliata ‘vita’. Ciò che mi preme sottolineare è che la gente del posto non sembra avere fede nei processi che mirano ad Invertire la deriva linguistica (Fishman 1991) del griko; ancor di più, non è quello che si aspetta o che cerca di ottenere; questo è probabilmente l’aspetto meno contestato del revival. Qualcuno potrebbe interpretare questa posizione come un’attitudine rassegnata davanti ad una realtà che conta un numero limitato di parlanti o di persone attivamente impegnate ad imparare e/o preservare questa lingua. Ritengo invece e quindi propongo che anche un uso parziale e selettivo del griko quale “capitale simbolico” (Bourdieu 1991) sia da considerare sufficiente alla gente del luogo a “segnalare una partecipazione e un orientamento culturale condiviso” (31) (Jaffe 2007: 71). Il griko è, infatti, ritornato a far parte del vissuto della gente del luogo, anche se in veste nuova: è rientrato nella realtà visiva più che quella sonora. Si ‘vede’ il griko, più di quanto non lo si senta. Viene scelto come nome di ristoranti, di B&B, di bar, di associazioni culturali, di gruppi musicali, di gruppi teatrali, di progetti ecc. Si parla poi più di griko che in griko. Teorie linguistiche che privilegiano la funzione comunicativa di una lingua, ritengono queste manifestazioni poco rilevanti; seguendo Jaffe propongo invece di adottare un “approccio alla lingua in quanto prassi” (Jaffe 2007: 70) e non in quanto “codice”: ciò cattura il passaggio da una definizione della lingua basata sulle sue funzioni formali ad una definizione basata sulle sue proprietà sociali e comunicative (Jaffe 1999: 31) che diventano quindi culturalmente significative per la gente del lungo aldilà della specifica competenza comunicativa. Ogni lingua ha, di fatto, una serie di funzioni che prescindono dalla comunicazione in senso stretto, come è avvenuto (e in parte continua ad avvenire) durante il processo di deriva linguistica, in cui i grikofoni continuarono ad usare il griko come codice che indicava ‘intimità’ e in situazioni di criptolalia, cioè quando il griko veniva utilizzato strategicamente come codice segreto, al fine di non essere capiti (tipico il caso dei genitori che usavano il griko quando non volevano che i figli capissero, o dei commercianti nelle transizioni con non grikofoni. Si veda Petropoulou 1995: 107 per il caso del grecanico).
La funzione che ha assunto nel tempo e che svolge oggi è principalmente di natura ‘performativa’ e questa è andata rafforzandosi proprio mentre il suo uso come veicolo per trasmettere informazioni veniva inesorabilmente meno. La peculiarità culturale grika non dipende quindi dalla ‘sopravvivenza’ della lingua, in quanto il meta-significato del griko oggi trascende e supera puri scopi comunicativi per diventare una forma di comunicazione culturale. Parafrasando Shandler che si riferisce all’uso contemporaneo dello Yiddish, il fatto stesso che qualcosa sia detto (o scritto o cantato) in griko, è significativo almeno quanto il significato delle parole pronunciate, se non di più (2006: 197-22) . Pertanto in “questa nuova modalità semiotica del linguaggio, ogni espressione è avvolta in un aura performativa, pregna di significato, in quanto atto linguistico dissociato dal significato delle parole pronunciate” (Shandler 2004: 20). Conferire significato non è ciò che conta di più: cosa prevale invece – come Shandler sostiene per la lingua Yiddish – è l’intenzionalità con cui viene utilizzato il griko, quando viene utilizzato. Tale uso performativo del griko indica quindi una riscoperta identificazione culturale. Più il griko muore, e più ‘resuscita’ performativamente in un processo dialettico.
Questo dimostra come le ideologie linguistiche interagiscono con gli ambiti sociali, politici ed economici, trasformando la realtà che descrivono e dimostrando il “carattere dinamico della lingua considerato a partire dal flusso storico di simboli socioculturali che si evolvono e rapporti di potere che si trasformano” (Kroskrity 2010: 202). La ‘storia’ del griko evidenzia il suo passaggio da ‘indice’ del passato e ‘icona’ di arretratezza, a ‘simbolo’ attraverso cui molteplici temporalità si infrangono, mentre emergono e competono nuovi significati.

 

NOTE

  1. Questo articolo è stato pubblicato in RACCONTARE LA GRECÌA. Una ricerca antropologica nelle memorie del Salento griko. A cura di Giovanni. Azzaroni e Matteo Casari, 2015, Kurumuny: Martano.
  1. La prima voce grika che ho sentito era quella della nonna Lavvretàna ed a volte mi sembra ancora di ascoltarla. Mio padre, Niceta, invece, non parlava griko con me quando ero piccola; ha cominciato perché io volevo impararlo, nove anni fa all’incirca. Adesso che non lo vedo più con i miei occhi, vado alla ricerca di tutte le parole dolci che mi ha lasciato e che non potrò mai dimenticare: una sorgente d’oro. Stammi bene, papà. La tua figlia più ‘piccola’. La trascrizione ortografica segue le convenzioni adottate dal progetto POS MÀTOME GRIKO, finanziato con il sostegno della Commissione Europea e finalizzato alla produzione di materiale didattico per l’insegnamento del griko, al quale ho preso parte come co-autrice del libro di testo del livello A1.
  1. Passi della poesia Glòssama, di Salvatore Tommasi (Tommasi 1996: 18-21). La trascrizione fonetica e la traduzione seguono la versione originale.
  1. Gli studiosi tendevano a usare il termine «greco-salentino», ma oramai tende a prevalere «griko», (scritto anche «grico»), nel linguaggio comune e non solo. In quest’articolo alternerò l’uso dei due termini. I grikofoni lo chiamano griko (to griko) e dicono milùme grika (parliamo griko); in salentino viene reso semplicemente con grecu (ita. greco). La variante parlata in Calabria è il greco-calabro, anche se il termine grecanico è più comune. Gli studiosi definiscono il griko e il grecanico «dialetti italo greci» o «dialetti greci»; in greco moderno ci si riferisce ai due indistintamente con il termine katoitaliká, letteralmente «italiano meridionale».
  1. La storiografia bizantina fa menzione di tre sole ondate migratorie cospicue verso il Sud d’Italia e questo è stato ritenuto un elemento a favore della «tesi magno-greca». D’altro canto la presenza di poche iscrizioni in greco anteriori alla presenza bizantina, ha contribuito alla «tesi bizantina» (Manolessou 2005).
  1. Dying language or “living monument? Language ideologies, practices and policies in the case of Griko. Dottorato conseguito presso University College of London, 2014. Da dottoranda ho condotto la ricerca sul campo in Grecìa Salentina (finanziata dalla Wenner Gren Foundation), e in Grecia (finanziata dal Ministero greco dell’istruzione e dalla Fondazione Greca per la ricerca, IKY) nel 2008 e 2009. Da ‘figlia di terra grika’, invece, la mia personale ricerca è cominciata molto prima e non credo finirà mai. La tesi presenta l’etnografia dell’attuale momento di transizione, ripercorrendo i processi che hanno portato il griko ad esercitare il fascino di cui gode attualmente. Attingendo a casi etnografici comparativi fa luce sull’interazione di ideologie e politiche linguistiche promosse dall’Unione Europea, dall’Italia e dalla Grecia.
  1. “[By Language Ideologies] linguistic anthropologists mean cultural construals of the structure and role of language in social life, together with their political and moral loading”. Se non altrimenti specificato, le traduzioni da testi non in lingua italiana, sono mie.
  1. “[Language Ideologies are] beliefs, feelings and conceptions about language structure and use”.
  1. “The term “language ideologies” is generally used in this literature to refer to sets of representations through which language is imbued with cultural meaning for a certain community”.
  1. Nonostante il termine ‘ideologia linguistica’ sia relativamente nuovo, ricerche condotte in sociolinguistica e nell’antropologia del linguaggio si erano più o meno direttamente riferite ad essa. Si consulti, ad esempio, la ricerca sulle attitudini linguistiche (Lambert 1967), prestigio (Labov 1972), standards (Milroy and Milroy 1985), etnografia della comunicazione (Gumperz e Hymes 1972). Per un riepilogo su come siano emersi e si siano evoluti gli studi sulle «ideologie linguistiche», si veda Kroskrity 2010.
  1. “[Language ideologies] envision and enact ties of language to identity, to aesthetics, to morality, and to epistemology”.
  1. “[Language ideologies are not] mental constructs which essentially «belong» to individuals. Ideologies, by contrast, are social constructs”.
  1. “[Language ideologies] are no less complex, contested, differentially distributed, and historically produced than other dimensions of social life”.
  1. [Different] ideologies construct alternate, even opposing realities; they create differing views arising from and often constituting different social positions and subjectivities within a single social formation”.
  1. Per un trattamento delle tesi a favore dell’origine magno-greca del griko, si veda Manoulessou (2005). Secondo la linguista l’uso dell’infinto dimostra solamente che la comunicazione con il resto del mondo ellenofono fu interrotta nel Medioevo; invita dunque gli studiosi ad analizzare i dati alla luce degli studi effettuati nell’ambito del bilinguismo, della deriva linguistica e del greco medievale. La mancanza di queste condizioni, sostiene la linguista, ha portato gli studiosi a dar più credito alla tesi delle origini bizantine di questa lingua (Manolessou 2005: 114, 121).
  1. Si veda anche Stewart (1978) che supporta la tesi del Rohlfs. In tempi più recenti Karanastasis (1992) ha proposto di unire le tesi del Morosi e del Rohlfs, sostenendo che alcune comunità greche possano essere sopravvissute alla fine del periodo magno-greco e che abbiano poi formato altre comunità ellenofone nel Medioevo.
  1. Il salentino, insieme al calabrese meridionale e al siciliano, appartiene al gruppo dei dialetti meridionali estremi, caratterizzati dal sostrato greco. In questo capitolo alternerò l’uso di “dialetto romanzo”, “salentino” e semplicemente “dialetto”, quest’ultimo essendo il termine usato dalla gente del luogo. Va inoltre ricordato, come sostiene Tosi, che i dialetti italiani non sono varietà dell’italiano ma vere e proprie lingue non ufficiali, in quanto varietà sviluppatesi dal Latino parlato nelle regioni italiane, i volgari, allo stesso tempo del Fiorentino che all’inizio del XIV secolo divenne il modello per la lingua letteraria pan-italiana (2004: 248). D’altro canto il detto “una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina” (attribuito al linguista Max Weinreich o al suo allievo, il sociolinguista, Joshua Fishman) mette in evidenza l’arbitrarietà della distinzione tra dialetto e lingua partendo da criteri puramente linguistici. A distinguerli è il capitale simbolico e politico ad essi associato. Questo spiega anche il mio uso del termine “lingua” riferito al griko.
  1. Languagescape, il termine che ho coniato seguendo Appadurai (1990), ha un significato bidimensionale, in quanto con esso mi riferisco non solo al griko come lingua parlata nel contesto di altre lingue locali, ma anche al panorama meta-discorsivo che circonda l’attuale revival. Seguendo la traduzione di Pietro Vereni (2001) si tradurrebbe con linguaggio ramo, dove il suffisso -orama sta ad indicare che “non si tratta di relazioni oggettivamente date che sembrano le stesse da qualunque visuale, ma sono invece costrutti profondamente prospettici, declinati dalle contingenze storiche, linguistiche e politiche di diversi tipi di attori” (Appadurai 2001: 52-53)
  1. Berruto (2009, 2010) chiarisce che il contatto linguistico può essere considerato dal duplice punto di vista dei parlanti o delle lingue. “Dalla prospettiva dei parlanti, due (o più) lingue sono in contatto quando sono contemporaneamente padroneggiate in qualche misura da uno o più parlanti. Dalla prospettiva delle lingue, due (o più) sistemi linguistici (che possono essere anche una lingua e un dialetto) sono in contatto quando si trovano a interagire, cioè quando le loro strutture sono esposte all’azione dell’una sull’altra” (2010).
  1. Fra gli esempi forniti dal Rohlfs, “la perdita dell’infinito, fenomeno tipicamente greco, e anzi fenomeno balcanico. Specialmente dopo i verbi che esprimono volontà e intenzione l’infinito e assolutamente escluso tanto nel nostro greco quanto nel dialetto salentino del Capo di Leuca fino a Brindisi e a Taranto” (Rolhfs 1980: 54).
  2. Il concetto fu introdotto da Ferguson (1959) and poi sviluppato da Fishman (1965) per far riferimento a un tipo specifico di bilinguismo in cui coesistono nel parlante due codici linguistici che presentano una separazione di funzione e di prestigio. La varietà alta (H[igh] o A) è utilizzata in situazioni formali e pubbliche, mentre la varietà cosiddetta bassa (L[ow] o B) è riservata a situazioni informali e familiari. Le due varietà non si sovrappongano funzionalmente (un classico esempio è la distinzione tra katharévusa e dhimotikí in Grecia).
  1. “[T]he word ‘hybrid’ is derived from Ancient Greek, where it meant the offspring of a tame sow and a wild boar” (Stewart 1999 n.5, 45).
  1. “[it] is a state half-way between solid and liquid. It is like a cross-section in a process of change”.
  1. [erasure refers to] “the process in which ideology, in simplifying the field of linguistic practices, renders some persons or activities or sociolinguistic phenomena invisible… elements that do not fit its interpretive structure- that cannot be seen to fit- must either be ignored or be transformed”.
  1. Tra questo ‘primo revival’ e quello attuale s’inserisce l’attivismo linguistico e culturale che inizia intorno alla metà degli anni ‘70, in cui si registrano tentativi di recuperare il griko e una serie di tradizioni locali da parte di associazioni culturali e di singoli cultori. Mi occupo del ‘revival intermedio’ del griko in uno dei capitoli del mio dottorato.
  1. Tratto da un articolo di P. Di Mitri, pubblicato su
  1. La deriva del griko è considerata la conseguenza di una molteplicità di fattori, fra cui l’impatto dell’istruzione in italiano (obbligatoria dal 1924), i flussi migratori verso il Nord e all’estero, e l’influenza dei mass media. Nel quadro di analisi delle ideologie linguistiche, tali eventi macrosociali non sono considerati di per sé le cause della deriva linguistica. Centrale è invece la reazione dei parlanti a tali eventi: sono, infatti, le loro interpretazioni di macro-processi politici ed economici, come anche della lingua e delle connesse relazioni sociali, che vanno poi ad influenzare l’uso della lingua di tutti i giorni (Gal 1978; Woolard 1989; Mertz 1989; Kulick 1992; Hill 1993).
  1. Il primo strumento internazionale esclusivamente incentrato sulla lingua, la Carta intende “tutelare e promuovere le lingue regionali o minoritarie in quanto aspetto minacciato del patrimonio culturale europeo” (European Guidance Charter 2004: 3). Nel 1999, oltre 50 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione italiana, la legge nazionale 482 ha riconosciuto griko e grecanico insieme come una tra le dodici “minoranze linguistiche storiche” sul suolo italiano, in conformità con la Carta europea (1992); ne rappresenta quindi un risultato rilevante (Bonamore 2004: 29) in un momento in cui i diritti linguistici ricevevano crescente attenzione internazionale. Il contributo simbolico della Carta non va quindi sottovalutato.
  1. Non posso approfondire in questa sede l’attuale fenomeno della pizzica e del neotarantismo. Mi limito a precisare che come il griko, anche la pizzica e il repertorio musicale tradizionale erano considerati ‘indici del passato’ da cui la gente cercava di disassociarsi per partecipare alla ‘modernità’. La ri-proposta del repertorio di musica popolare inizia negli anni ‘70 e il fenomeno attuale (si veda La Notte della Taranta) ne è in parte la conseguenza. Oggi la pizzica è diventata il simbolo della identità locale – di pari passo con il griko – e il marchio di fabbrica della zona. Il patrimonio culturale locale non è, infatti, più percepito quale ostacolo come in passato, ma come fonte di risorse economiche e di riscatto sociale. La “terra del rimorso” di De Martino è stata trasformata nella “terra delle risorse”.
  1. Nel capitolo della mia tesi Lo sguardo dei vicini: la visione greca della Grecìa Salentina viene presentato un resoconto etnografico della ricerca effettuata in Grecia sulle iniziative a sostegno della griko promosse sia a livello popolare (attraverso le attività di associazioni culturali greche e singoli appassionati di griko) sia istituzionale, e dei loro effetti sulla ideologie linguistiche locali riguardanti il griko e il neogreco.
  1. “[S]elect or partial uses of an endangered language become one of the ways in which people signal their shared participation and cultural orientations”.
  1. [Its] meta-meaning supersedes this way its value as a system for daily communication [….] in postvernacular Yiddish the very fact that something is said (or written or sung) in Yiddish is at least as meaningful as the meaning of the words being uttered, if not more so”. Shandler si riferisce all’usocontemporaneo della lingua Yiddish negli Stati Uniti nel periodo che segue la seconda guerra mondiale ed usa la nozione di “Yiddish postdialettale” (postvernacular Yiddish) per indicare la funzione semiotica assunta da questa lingua, in seguito al declino dello Yiddish dopo l’Olocausto.

 

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Manuela Pellegrino – Note biografiche

Originaria di Zollino, paese della Grecìa Salentina, insegna attualmente Antropologia presso l’università Brunel di Londra.

Laureata in lingue e letterature straniere presso l’Università del Salento (2000) ha lavorato nel settore risorse umane a Londra prima di completare un master (2006) e un dottorato di ricerca (2014) in Antropologia sociale presso l’University College di Londra, dal titolo “‘Dying language’ or ‘living monument’? Language ideologies, policies and practices in the case of Griko” (‘Una lingua che muore’ o ‘un monumento che vive’? Ideologie, politiche e pratiche linguistiche nel caso del griko).

Ha condotto ricerca in Salento e in Grecia e si occupa di antropologia del linguaggio, ideologie, politiche e pratiche linguistiche, lingue minoritarie, identità locali, turismo, memoria e coscienza storica.

Ha collaborato al progetto Europeo ‘Pos màtome Griko’ in qualità di autrice del livello A1 di un libro di grammatica grika per bambini (Edizioni Alpha 2013) ed è membro del comitato scientifico del progetto “Luoghi e visioni”.

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