L’origine del griko e lo spazio linguistico italoromanzo. Un secolo di dibattiti

 

L’origine del griko e lo spazio linguistico italoromanzo. Un secolo di dibattiti

                                                                                    di Marcello Aprile

 

(Testo della conferenza del prof. Marcello Aprile tenuta il 20 settembre 2006 a Calimera)

 

  1. L’origine dei nostri dialetti italo-greci ha suscitato quasi un secolo e mezzo di polemiche piuttosto virulente che stasera si ha l’ambizione – o forse, la presunzione – di riassumere in 15 minuti. Sarò breve sui dettagli tecnici, ma intanto mi premeva ricostruire in origine il perché della virulenza della polemica, un perché che oggi sfugge ai più, ma che in fondo negli anni Venti-Quaranta del Novecento non era neanche tanto velato.

Nella ricostruzione della storia linguistica, cioè della storia senza aggettivi vista attraverso la prospettiva della lingua, càpita spesso che due o più studiosi siano in disaccordo tra loro, ma raramente la polemica supera i limiti della disputa sulle riviste accademiche, confinata all’attenzione di pochi specialisti. Nelle discussioni sul grico invece hanno preso la parola un po’ tutti, anche, come capita da qualche decennio, i non addetti ai lavori. Qualche volta è successo per il grico un po’ quello che succede alla Nazionale di calcio, per cui in Italia ci sono circa 50 milioni di commissari tecnici che farebbero tutti formazioni diverse, tutte beninteso migliori di quella che effettivamente ha giocato la sera prima. La questione dell’origine del grico è quindi un tema che ha appassionato; e che ha diviso, come tutte le cose che appassionano. Sì, ma perché?

 

 

  1. La prendo un po’ alla lontana, polarizzando volutamente gli esempi per essere più chiaro e dimostrando quanto alcune volte siano le visioni ideologiche a condizionare il giudizio su una lingua, e non viceversa.

Il primo esempio è lontano nel tempo e nello spazio e riguarda la questione delle differenze tra il moldavo e il rumeno. Dopo l’avvento del regime sovietico, più o meno dagli anni Venti, improvvisamente il moldavo venne ad essere considerato dagli accademici russi come una lingua a sé, diversa, e non, come accadeva prima, uno dei quattro macrodialetti del rumeno. Perché i russi si affannavano a distinguere a tutti i costi il rumeno dal moldavo, accanendosi in modo apparentemente inspiegabile? Perché i dirigenti dell’URSS volevano prevenire eventuali rivendicazioni territoriali da parte della Romania sulla confinante Moldavia. Negando che il rumeno e il moldavo fossero la stessa lingua, e cioè indirettamente che i rumeni e i moldavi appartenessero allo stesso popolo, i russi si garantivano dal fatto che i rumeni, prima o poi, rivendicassero il controllo della Moldavia. E infatti, una volta caduto il Muro, sono puntualmente arrivate le rivendicazioni territoriali (e anche l’aspirazione dei moldavi a riunirsi alla madrepatria).

Il secondo esempio. Ancora nell’URSS dello stalinismo, uno studioso molto zelante di nome Marr sosteneva una tesi che oggi è considerata delirante e che è propinata ai nostri studenti come modello a cui non ci si deve attenere. Marr insegnava che il proletariato di Parigi e quello dell’URSS non si capissero non perché il francese e il russo fossero lingue diverse, ma perché i due proletariati venivano tenuti artificialmente separati nientedimeno che dalla borghesia. Secondo Marr, se si fosse distrutta la borghesia il francese e il russo sarebbero diventati la stessa lingua. Un’idea semplicemente delirante. Ma tutto questo fu insegnato seriamente nelle università russe per alcuni anni, finché lo stesso Stalin non si stancò di Marr e lo spedì in Siberia.

Che cosa c’entra questo con il grico? C’entra, perché questi esempi lontani mi servivano per chiarire un fatto fondamentale: che l’oggettività della scienza è un criterio spesso più enunciato che applicato, e qualche volta rimane una semplice aspirazione. Anche nella questione del grico, come vedremo, a un certo punto l’oggettività della scienza ha lasciato il posto ad altro.

Riassumiamo le fasi del dibattito nello schema che vedete al punto (1) dell’hand out che avete tra le mani:

 

(1)

  1. Intervento di Giuseppe Morosi (1870): le colonie griche del Salento e della Calabria sembrano di origine bizantina
  2. Anteguerra. Pubblicazione degli Scavi linguistici nella Magna Grecia di Gerhard Rohlfs (che ribalta la tesi di Morosi) e violento scontro con gli accademici italiani del ventennio (Clemente Merlo, Carlo Battisti, Giovanni Alessio)
  3. Dopoguerra. Pubblicazione del Vocabolario dei dialetti salentini di Gerhard Rohlfs e, sul fronte contrapposto, del saggio I dialetti romanzi e romaici del Salento di Oronzo Parlangèli (erede della tesi bizantinista)
  4. Tesi di ricostruzione sociolinguistica di Franco Fanciullo (1997), che nel volume Fra Oriente e Occidente rivede finalmente i dati alla luce delle teorie sulle lingue in contatto, giungendo a una cronologia e a una soluzione diversa.

 

Fase (a). Giuseppe Morosi, un allievo del fondatore della glottologia italiana, G.I. Ascoli, per primo ipotizzò, sulla base di concordanze forse un po’ superficiali, che l’origine delle colonie greche del Salento e della Calabria (le due cose sembravano collegate, ci si è messo un po’ per accertare che invece andavano separate: Pfister 1992) fosse relativamente recente, di età bizantina.

 

Fase (b). Come accade spesso in queste cose, il lavoro di Morosi fu accettato per alcuni decenni senza alcun problema; nel senso che non fu discusso. C’erano però dei fatti che gli erano sfuggiti, e che però non sfuggirono ad un giovanissimo studioso tedesco, Gerhard Rohlfs, che cominciò a viaggiare nell’Italia meridionale di allora, il 1921-22, cominciando a praticarne villaggi isolati e mulattiere dove probabilmente molti degli abitanti locali non avevano mai visto uno che parlasse l’italiano, che era la lingua nazionale ormai da 60 anni. Probabilmente, nei villaggi lucani descritti da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, l’unico essere umano estraneo al posto era stato proprio Rohlfs.

I viaggi dello studioso tedesco non mancarono, qualche decennio più tardi, di suscitare una certa ironia, qualche volta fuori luogo, presso i suoi colleghi italiani, che lo chiamavano, con aperta ostilità, “il dotto alemanno”. Ecco che cosa dice T. Bolelli, che insegnava Glottologia a Pisa, la roccaforte dei suoi avversari:

 

(2) “nuovi viaggi sono la testimonianza di un continuo provare e riprovare che in qualche caso ha il carattere patetico di chi va a sorvegliare come sta l’ammalato, e in qualche caso il moribondo” (Bolelli 1965: 221)

 

In sintesi, la tesi di Rohlfs si può riassumere così.

Sulla base della concordanza tra elementi della sintassi, della fonetica e del lessico (cito i fenomeni in ordine di profondità, dal più profondo al più superficiale) tra i dialetti greco-calabri e greco-salentini e alcune varietà del greco antico, si desume che i nostri dialetti sono il residuo della colonizzazione risalente alla Magna Grecia, non della colonizzazione medievale, quella bizantina. Il fatto che poi le migrazioni successive dalla Grecia abbiano rafforzato (rafforzato, badate bene, non creato) le isole linguistiche greche non implica quindi che i greci del Salento e della Calabria siano venuti in Italia meridionale con i bizantini, interrompendo la continuità della presenza greca nelle nostre regioni. Secondo questa teoria, insomma, i greci c’erano già, non sono giunti qui ex novo nel Medio Evo.

 

Alcuni dei dati comuni ai dialetti italogreci e italoromanzi sono questi:

 

(3)

Fenomeni linguistici Dialetto di Lecce città Grico
a. mancanza del futuro Crai sciamu a Lecce Avvrio pame e’ Lluppìu
b. Perdita dell’infinito Sciamu cu bbitimu Pame na torisome
c. (–) Conservazione dell’infinitocon il verbo potere No ppozzu turmire E’ ssozzo plosi
d. (–) Frase ipotetica Ci tenìa fame mangiava An èvrehe, ’en èrkamo

 

(4)

Greco antico Greco moderno Grico
pente pende pente
ampéli ambéli Ampéli
thalassa, ennea thalasa, en talassa, ennea

 

Per quello che vi dirò, vi renderete conto che il problema non era puramente accademico. La tesi di Rohlfs scardinava una delle certezze granitiche del regime dell’epoca: l’idea cioè che Roma e la romanità fossero il cardine, il cuore ideologico della civiltà.

La sola idea che la grande Roma, che con l’Impero aveva sconfitto e piegato tante popolazioni lontane, che aveva conquistato il Mediterraneo fino a farne il Mare Nostrum, il solo sospetto che l’Impero romano non fosse stato capace di romanizzare tutta la penisola italica fino all’ultimo angolo mandò in bestia l’intera Università italiana dell’epoca, che reagì malissimo, con estrema violenza (Varvaro 1991), alla tesi dello studioso tedesco. In sostanza, quella di Rohlfs apparve ai professori italiani del tempo, che ovviamente aderivano tutti al regime allora vigente, come una tesi politicamente inconcepibile e persino destabilizzante.

Intendiamoci; e vorrei essere estremamente chiaro su questo punto. Stiamo parlando di studiosi di primo livello, di specchiata e inattaccabile moralità e di una capacità tecnica sbalorditiva, non di scribacchini di regime. Clemente Merlo, Giovanni Alessio e Carlo Battisti, che sono appunto gli studiosi italiani di cui stavo parlando, sono stati grandissimi, insuperati Maestri. Ma toccati sul punto della romanità reagirono con una violenza da ultrà da stadio.

Solo se si fosse dimostrato che i nostri dialetti erano di origine bizantina l’onore dell’Impero romano sarebbe stato salvo: la faccenda, insomma, si spostava dalla dialettologia a qualcosa di diverso.

Il cuore del problema è qui. Questo è il punto che spiega la virulenza di un dibattito che altrimenti sarebbe rimasto confinato sulle riviste accademiche, lette da poche decine di addetti ai lavori, e che invece divampò durissimo anche sul piano umano. Dall’altra parte della barricata, Rohlfs era molto poco amato dal regime nazista, tanto che fu tra i suoi pochissimi oppositori, venendo licenziato in tronco dall’università di Monaco dove insegnava. Rohlfs insomma non aveva paura di Hitler, figuriamoci se aveva paura di Carlo Battisti e di Giovanni Alessio.

 

Fase c. Nel dopoguerra, i protagonisti della polemica sono ancora, per fortuna, in buona salute, e il duello, anche se ormai è venuto meno la motivazione politica immediata, riprende indisturbato.

Quando esce il Vocabolario dei dialetti salentini (1956-59; poi 1976), uno dei classici immortali della lessicografia dialettale del Novecento (Aprile/Coluccia/Fanciullo/Gualdo 2002), Rohlfs ha l’occasione di togliersi diversi sassolini dalle scarpe.

Dobbiamo però registrare il fatto che uno dei protagonisti di questi anni, sul fronte bizantinista, è estraneo alle polemiche dell’anteguerra. Si tratta di Oronzo Parlangeli, grande studioso (finalmente un salentino, di Novoli), avversario leale a cui Rohlfs rende omaggio così, recensendo un suo contributo:

 

(5) “Sono utilissime le precisazioni che riguardano il testo del Sydrac otrantino. Molto opportuno anche il materiale ricavato dal vocabolario leccese (rimasto manoscritto) del defunto Enrico Costantini († 1940) […]. Giovano anche al nostro scopo le aggiunte che l’autore apporta, desumendole dal dialetto del suo paese nativo (Novoli), fra le quali non pochi termini gergali. Anche il contributo etimologico merita lode” (Rohlfs, VDS, p. 858, a proposito di un lavoro di Parlangeli)

 

Molto forte è il contrasto con i fulmini che si abbattono solo alcune righe dopo su Carlo Battisti. La liquidazione della caratura scientifica dell’avversario avviene dopo una constatazione neutra, “combatte la tesi rohlfsiana sull’origine della grecità salentina con deduzioni e teorie cavate da elementi toponomastici della regione”, e un lapidario riconoscimento, “lavoro molto dotto”. Segue una serie di giudizi sprezzanti e veramente crudeli, peraltro in crescendo: “di carattere estremamente libresco. I dati forniti non sempre sono molto sicuri. Anzi il lavoro abbonda di confusioni geografiche e linguistiche, di forme dialettali erronee e di accenti sbagliati. I nomi locali non sono controllati sul luogo, ma sono cavati da fonti di seconda mano. Le etimologie sono assai azzardate, raramente convincenti e spesso addirittura fantastiche”.

 

(6) “combatte la tesi rohlfsiana sull’origine della grecità salentina con deduzioni e teorie cavate da elementi toponomastici della regione […]. Lavoro molto dotto. Di carattere estremamente libresco. I dati forniti non sempre sono molto sicuri. Anzi il lavoro abbonda di confusioni geografiche e linguistiche, di forme dialettali erronee e di accenti sbagliati. I nomi locali non sono controllati sul luogo, ma sono cavati da fonti di seconda mano. Le etimologie sono assai azzardate, raramente convincenti e spesso addirittura fantastiche” (Rohlfs, VDS, p. 858, a proposito di un lavoro di Carlo Battisti).

 

Fase d. Morti i protagonisti dei dibattiti degli anni Sessanta (lo stesso Parlangeli, autore di un saggio importantissimo che si intitola Sui dialetti romanzi e romaici del Salento, si spegne tragicamente nel 1971; Rohlfs muore nel 1988), la questione è rimasta sostanzialmente congelata e se ne sono occupati, se così si può dire, solo eruditi locali. Finché, spente le polemiche più aspre, i dati sono stati riconsiderati con un occhio totalmente diverso dallo studioso pisano (ma di Cellino San Marco) Franco Fanciullo, che ha potuto servirsi dell’avanzamento della sociolinguistica come scienza. E il contributo delle scienze sociali, alle quali la linguistica ovviamente appartiene (dato che la lingua, come qualche volta si tende a dimenticare, è un fatto sociale) alla ricostruzione dell’intero quadro, come vedremo, è decisivo.

Il punto di partenza teorico di Fanciullo sono gli studi sul plurilinguismo. In tutti i decenni delle polemiche furibonde sull’origine del grico le questioni erano state presentate, da entrambe le parti, come un aut aut: si parlava di confini in cui si immaginavano centri abitati con popolazioni compattamente monolingui in cui gli scambi tra varietà linguistiche erano tutt’altro che flessibili. Come se i nostri paesi fossero stati nei secoli scorsi o greci o latini, senza possibilità di interferenze. Questo è contrario alla realtà storica e sociale, oltre che al buon senso, e si trovano esempi paralleli del contrario in molte realtà. Dovrò ancora per un momento uscire dalla Grecia salentina e andare molto, molto lontano.

In India ci sono luoghi dove alcuni parlanti arrivano a dominare, magari in modo elementare, anche 10-12 varietà, dall’hindi (la lingua nazionale) all’inglese (la lingua coloniale), passando per dialetti locali e di paesi confinanti. Bisogna immaginarsi una realtà in cui uno stesso cittadino va al Comune e richiede un documento in hindi standard, magari parlando con l’impiegato nel dialetto hindi del posto, poi compra il The Telegraph India che è un quotidiano in lingua inglese, è sposato con una ragazza di un villaggio vicino a prevalenza pakistana, fa la spesa in un mercato dove trova commercianti maharatti e bengalesi, eccetera. Insomma, cambia lingua o dialetto una decina di volte al giorno. Si tratta di un caso limite, ma senz’altro possibile. Figuriamoci se non era possibile nel Salento, dove i nostri nonni certamente ricordano la presenza del grico e del dialetto romanzo salentino, ma anche dell’italiano per le élites (farmacisti, maestri elementari, sacerdoti) e fino a qualche secolo fa bisognava considerare anche il latino, magari per gli atti notarili; ma qualcuno per scrivere un atto notarile il latino doveva saperlo. E siamo già a quattro lingue diverse. Qualcuno le possedeva tutte, ma in ogni caso era raro che nei nostri paesi si scendesse sotto le due – “gente con due lingue”, si diceva appunto di noi calimeresi. Dobbiamo insomma sgombrare la mente da pregiudizi e considerare la possibilità dell’et et (si parlava e il grico e il dialetto romanzo) più che dell’aut aut (o il grico o il dialetto, in alternativa tra loro). Insomma, chi veniva a vivere a Calimera, pur non essendo etnicamente grico, doveva imparare il grico per comunicare, così come i calimeresi, andando fuori paese a vendere il carbone, dovevano conoscere il dialetto romanzo. In queste condizioni, in cui peraltro non c’era la coscienza dell’appartenenza etnica in senso nazionalista, che è un fatto degli ultimi due secoli spesso scorrettamente proiettato nel passato più lontano, non era probabilmente chiaro neanche chi fosse greco e chi latino. Una distinzione che per lunghissimi secoli probabilmente non ebbe alcun senso.

A che cosa ci porta questo ragionamento flessibile, che tiene conto delle realtà sociali effettive e non di confini rigidi che proiettano la nostra realtà mentale sul passato, deformandolo?

Il ragionamento è piuttosto semplice. Sul piano linguistico, l’aspetto del grico del Salento è nettamente più recente di quello del grico calabrese, che andrà senza dubbio assegnato alla Magna Grecia. Su questo punto la discussione è chiusa da decenni. D’altra parte già Rohlfs aveva seppellito gli avversari sotto una tale mole di prove che non ce n’era davvero per nessuno. Il grico del Salento conserva invece alcuni elementi arcaici, non moltissimi, ma che non per questo possono essere ignorati e cancellati, ma ha un aspetto complessivamente più recente. Allora come se ne viene fuori, a parte la constatazione, a questo punto ovvia, che il greco del Salento e quello della Calabria hanno storie e origini diverse?

Secondo Fanciullo, la cui ricostruzione affronta la complessità senza fingere di ignorarla e senza semplificarla arbitrariamente, dev’essere senz’altro scartata l’idea dell’origine magnogreca “secca” del grico del Salento. Va considerato invece il fatto che, quando i messapi furono definitivamente sconfitti dai romani, nel Salento non arrivarono soltanto i soldati di Roma, ma anche, magari in ordine sparso, moltissimi greci. L’idea appare talmente ragionevole (ed è supportata da una grossa mole di dati che vi risparmio) che, come succede a volte in questi casi, non si capisce proprio come non sia venuta in mente prima in modo organico a nessuno dei protagonisti delle furibonde dispute del Novecento.

Si riconosce così apertamente l’origine antica (tardoantica, imperiale, ma pur sempre antica) del grico, che appare incontestabile per via dei suoi elementi arcaici che non possono venire direttamente dal greco bizantino, ma si riconosce altrettanto apertamente che il nostro grico non risale, non può risalire direttamente alla Magna Grecia, che qui non c’era.

Quando è apparso questo libro, Fra Oriente e Occidente, l’accoglienza degli studiosi è stata entusiastica, anche se il dibattito è tornato nell’ambito delle riviste specialistiche, da cui forse non si sarebbe mai dovuto muovere. La ragionevolezza dell’impianto, che segue le vicende del greco e del dialetto romanzo anche nei secoli del Medio Evo, è tale che abbiamo finalmente un quadro completo di come queste due lingue abbiano vissuto e respirato insieme, condizionandosi funzionalmente in moltissimi aspetti, dal vocalismo alla morfologia per finire con quello più appariscente, il lessico.

Non ho il tempo di fornire la fittissima serie di dati tratti da documenti epigrafici e manoscritti riuniti da Fanciullo; ma insomma, prima nella tarda antichità e poi a maggior ragione in epoca bizantina

 

(7) [le due lingue, greco e romanzo] dovettero arrivare ad un massimo livello di mescolanza, nel quale, ai lessemi e morfemi comuni provenienti dalla simbiosi greco-latina, vennero ad aggiungersi nuovi lessemi non più latini né greci, ma ormai romanzi e bizantini, con influssi plurimi (Fanciullo 1996: 16)

 

(8) Tutta una serie di elementi fonetici dei dialetti romanzi dell’Italia meridionale estrema (a cominciare dal vocalismo tonico […]) si spiega bene solo se si ammette che, nel passaggio dal latino al romanzo, il punto di riferimento linguistico di chi parlava romanzo sia stato precisamente il bizantino; e questo ruolo-guida del bizantino si capisce bene solo ammettendo una diffusa e preesistente compresenza di latino che diveniva romanzo e di greco che diveniva bizantino (Fanciullo 1996: 147)

 

Che si tratti di dati di grande ragionevolezza è testimoniato dall’accoglienza presso scienze diverse dalla linguistica. Vediamo per es. che cosa compare in un libro di Francesco D’Andria e Mario Lombardo (1999: 104).

 

(9) “Pertanto appare anche plausibile che nel Salento di età romano imperiale, in una terra che fungeva da cerniera tra l’Est grecofono e l’Ovest latino [corsivo originale], accanto alla lingua ufficiale, il latino, venisse utilizzato anche il greco, la cui conoscenza era senza dubbio utile, proprio in virtù dei rapporti, principalmente economici, che esistevano tra la penisola salentina ed il Mediterraneo orientale” (D’Andria-Lombardo 1999: 104).

 

La soluzione – ragionevole, fondata, documentata, flessibile – è quindi arrivata, come spesso accade, quando i furori ideologici si sono spenti; quando la scienza si è ripresa il suo posto rispetto agli schemi ideologici. Vi ringrazio.

 

***

 

Bibliografia minima (relativa solo a fonti utilizzate per l’intervento)

 

Aprile, Marcello / Coluccia, Rosario / Fanciullo, Franco / Gualdo, Riccardo (2002), “La Puglia”, in Cortelazzo, Manlio / De Blasi, Nicola / Marcato, Carla (a cura di) I Dialetti italiani, Torino, UTET, pp. 679-756.

 

Battisti, Carlo (1959) “Stratificazioni linguistiche nel Salentino”, in Archivio per l’Alto Adige, 53 (1959), pp. 42-82

 

Bolelli, Tristano (1965) 1965 Recensione a Rohlfs 1964, in L’Italia Dialettale 28, pp. 221-2.

 

Fanciullo, Franco (1993) “Latino e greco nel Salento”, in Vetere, Benedetto (a cura di) Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi. Prefazione di C.D. Fonseca, RomaBari, Laterza, pp. 421-486.

  • Fanciullo, Franco (1996) Fra Oriente e Occidente. Per una storia linguistica dell’Italia meridionale, Pisa, ETS.

 

Mancarella, Giovan Battista (1975) Salento, Pisa, Pacini.

 

Parlangeli, Oronzo (1953/1989) Sui dialetti romanzi e romaici del Salento. Presentazione di G.B. Mancarella, Galatina, Congedo.

 

Parlangeli, Oronzo (1958) “Postille e giunte al Vocabolario dei dialetti salentini di G. Rohlfs”, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo, Classe di lettere, 92 (1958), pp. 737-798.

 

Pfister, Max (1992) “L’importanza del Salento per la dialettologia italiana e per il Lessico Etimologico Italiano”, in Coluccia, Rosario (a cura di) Riflessioni sulla lessicografia. Atti dell’incontro organizzato in occasione del conferimento della laurea “honoris causa” a Max Pfister (Lecce, 7 ottobre 1991), Galatina, Congedo, pp. 53-65.

 

Profili, Olga (1984-85) «Description du système phonétique et phonologique du parler grico de Corigliano d’Otranto», in Studi Linguistici Salentini 14 (1984-95), pp. 9-117.

 

Rohlfs, Gerhard (1950-77) Historische Grammatik der unteritalienischen Gräzitat, München, Beck, 1950 (traduzione italiana a cura di Salvatore Sicuro, Grammatica storica dei dialetti italo-greci, München, Beck, 1977).

 

Rohlfs, Gerhard (1933/1974) Scavi linguistici nella Magna Grecia, Galatina, Congedo.

 

Varvaro, Alberto (1991) “Implicazioni teoriche delle ricerche dialettali di Gerhard Rohlfs in Lucania”, in De Blasi, Nicola / Di Giovine, Paolo / Fanciullo, Franco (a cura di) Le parlate lucane e la dialettologia italiana (Studi in memoria di Gerhard Rohlfs). Atti del Convegno (Potenza-Picerno, 2-3 dicembre 1988), Galatina, Congedo, pp. 139-148.

 

 

 

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