Questo il tormento… (Tui ti’ psichimmu… )
Tui ti’ psichimmu…
Tui ti’ psichimmu ene e fotia ce e pena:
satti pu kuo tes eftà ndalisi
epianni t’armatatu passion ena
ce pai cherùmeno na polemisi;
c’is pai min guddha o choma na skalisi
ce tis ta vìdia ta kratì tsemmena:
is ena prama kanni, is kanni t’addho…
C’evò suspiru atti’ kardìammu guaddho.
Questo è il tormento …
Questo è il tormento che mi affligge il cuore:
quando sento le sette rintoccare
s’affretta ognuno a prendere gli attrezzi
e si dirige allegro al suo lavoro;
chi rivolta la terra con la zappa
chi soggiogati spinge avanti i buoi:
chi fa una cosa, chi è occupato a un’altra…
Io invece sto qui solo a sospirare.
Nota
Questo breve componimento del Kokkaluto non cessa di affascinarmi. Semplice: nelle parole, nelle immagini, nel costrutto. Immediato e sincero. Scarno: non c’è un aggettivo di troppo, anzi non ci sono affatto aggettivi, non fosse per quel “cherùmeno” (allegro) che sembra fare a pugni con la realtà che descrive. Realtà quotidiana di un normale risveglio e della necessità di apprestarsi a correre in campagna per lavorare: chi a zappare, chi ad arare.
Ma questa scena quotidiana è chiusa, schiacciata, da due versi, il primo e l’ultimo, che le fanno assumere una connotazione di stridente contrasto. Ciò che è normale, quotidiano, faticoso lavoro agricolo assume, per il poeta, un significato tutto nuovo. Per lui, costretto all’immobilità, andare a lavorare è segno di allegria; l’esclusione dalla vita normale è invece fonte di dolore cupo e non rassegnato. La forza del brano poetico mi sembra tutta racchiusa nel contrasto tra il “cherùmeno” di chi va e “c’evò suspiru guaddho” di chi rimane.
Nella efficace immediatezza con cui il poeta partecipa il suo sentimento di rabbia e di dolore e nel tratteggio essenziale degli elementi descrittivi sembrano quasi riaffiorare la limpidezza e la freschezza di un frammento degli antichi lirici greci.
KOKKALUTO
Kokkaluto (Vito Antonio Tommasi), così chiamato da kòkkalo (cervello), visse tra la II metà dell’800 e i primi del ‘900. Contadino calimerese, benché analfabeta, come riferisce G. Aprile in Traùdia, opera da cui è tratto il brano, si diede a comporre versi anche perché paralizzato. Si attribuiscono a lui alcuni dei brani di poesia presenti, anonimi, nella raccolta del Morosi.
da: Giannino Aprile, Traùdia (Ghetonia, 1990), p. 181
Traduzione libera e nota di Salvatore Tommasi