Premessa

Premessa

 

Ho costretto per qualche tempo i miei pensieri alle parole del griko, mia lingua materna, al suo vocabolario povero e sempre più esiguo. Ho cercato di intrecciare quelle parole nella maniera più idonea per far sentire la loro musicalità e dolcezza, ricorrendo, dove ho potuto, alla metrica e alle rime, talvolta ai ritmi della tradizione popolare.

A un tratto mi sono accorto che erano in realtà le parole grike a guidare, orientare, far nascere pensieri, esprimere emozioni, stabilire e delimitare l’ambito del discorso. Sicché mi sono lasciato prendere ed avvolgere dalla loro semplicità ed essenzialità, dicendo solo quello che esse mi suggerivano e permettevano di dire.

Ho liberato la mente dagli arzigogoli e dalla ricercatezza della lingua colta, dai pensieri e dai problemi che essa genera, e sono tornato a immergermi nel parlare quotidiano degli uomini e delle donne della mia infanzia.

La lingua grika sta tutta in quel parlare. E’ questo il suo limite e la sua ricchezza. Perché essa non ha le mezze misure, non ti permette di tergiversare: il dolore è dolore e l’amore è amore; il bianco è bianco e il nero è nero. Non ci sono sfumature. Non ci si può inoltrare in segreti recessi dell’anima e della realtà con poche decine di aggettivi.

Si possono scrivere poesie con una lingua del genere? Naturalmente non spetta a me dare una risposta. L’espressione poetica è in generale un atto d’amore. Tanto più lo è in questo caso. E un atto d’amore non cerca preventive giustificazioni, non discetta, non fa calcoli. Si motiva da sé ed è gratuito. Può essere accolto o respinto, può trasmettere la scintilla che lo ha generato ed essere ricambiato, oppure può spegnersi, come un’inutile ed istantanea meteorite.

Poche parole”. E’ la definizione della lingua grika. Per un momento, tuttavia, questa espressione, e con essa la stessa lingua grika, mi è parsa alludere e racchiudere molto di più: i nostri pensieri, le nostre storie, la nostra vita… Tutto può essere contenuto in “poche parole”. Così è nata l’idea della raccolta. Che ho suddiviso, forse con un eccesso di premura didascalica, in sezioni, ognuna introdotta e spiegata dalla composizione iniziale.

La prima sezione è monotematica: torna sempre a riflettere, in maniera forse ridondante, a volte apparentemente contraddittoria, ambivalente, sull’antico, singolarissimo, retaggio linguistico, in via di estinzione, di un pugno di paesi salentini. Tenta di esprimerne la peculiarità, il valore, la storia, prefigurarne l’esito.

La seconda e la terza danno voce ad emozioni e sentimenti diversi, come fa di solito la poesia: dall’amore, al dolore, al bisogno religioso.

La quarta sezione è dedicata ai bambini. Prende a pretesto un vecchio gioco – spingere su e giù il bambino seduto a cavalcioni sulle gambe dell’adulto, accompagnando il movimento con il ritmo di una filastrocca: bium-bò bium-bò… – per riempire il ritmo tradizionale di nuovi motivi.

Anche l’ultima prende spunto dalla tradizione. L’intrattieni (ntartieni) era per i bambini griki una parola enigmatica, riferita ad un oggetto altrettanto misterioso che essi venivano spesso incaricati di cercare presso vicini o parenti. Era in realtà una parola in codice degli adulti – mutuata peraltro dall’italiano – per togliersi di torno i piccoli in particolari circostanze. Ho tratto da questa usanza il pretesto per curiosare, con un po’ di fantasia e di ironia, nel mondo tradizionale degli adulti che era proibito ai bambini.

Dei vari testi in lingua grika ho anche curato la traduzione. Si tratta di una traduzione libera: in genere non riproduce la rima, ma cerca almeno di mantenere il ritmo, restando fedele alla sostanza più che all’esatta riproduzione delle parole. E’ probabile, infatti, che, per quanto queste composizioni siano rivolte a chi conosce il griko, l’eventuale lettore vi si accosti partendo dalla traduzione: per questo ho cercato di rendere la versione italiana meno faticosa possibile, spingendo – chissà – attraverso di essa ad un accostamento all’originale.

 

Salvatore Tommasi

 

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