Poesia popolare: introduzione
LA POESIA POPOLARE DELLA GRECIA SALENTINA
La singolarità della nostra lingua, il griko, che si è conservata negli ultimi secoli come lingua solo parlata, avendo perso l’uso della scrittura, ha fatto sì che fino agli ultimi anni dell’Ottocento non esistesse in questa lingua una letteratura vera e propria, ma soltanto una grande quantità di racconti e di poesie popolari, conservati nella memoria di narratori e cantori e trasmessi di generazione in generazione. L’aver registrato e conservato anche questo ricco patrimonio orale, permettendoci di entrarne a conoscenza, è merito inestimabile dello studioso calimerese Vito Domenico Palumbo. Altre testimonianze esistono, ma in genere successive e sicuramente più esigue.
In questo settore, dedicato alla poesia popolare, proporrò alcuni testi relativi per la maggior parte a tre ambiti tematici: quello dell’amore, quello religioso e quello della morte. Un altro ambito, meno ricco, è dedicato a filastrocche e ninne nanne. Proporrò solo alcune composizioni, che ho scelto e in qualche modo organizzato, tra le tante raccolte soprattutto dal Palumbo e che sono contenute nel volume di Salvatore Sicuro, Ìtela na su po’… Canti popolari della Grecìa Salentina, Ghetonìa, 1999, al quale rimando per eventuali approfondimenti.
Vorrei intanto far notare che, passando in rassegna un po’ di tali testi, ci si accorge facilmente di due fondamentali processi attraverso cui si è sviluppata la nostra cultura grika, e che sono riscontrabili sia sul piano linguistico e culturale più generale che su quello della elaborazione artistica. Si tratta di un processo di assimilazione, attraverso cui i “griki”, entrando in rapporto con la cultura circostante, hanno assunto da essa forme, contenuti, espressioni, trasferendoli nella propria tradizione, e di un processo di adattamento di propri modelli, strutture, convinzioni e valori, che, pur arricchendosi di apporti esterni, essi hanno comunque continuato a mantenere nella loro nuova situazione.
Così, se esaminiamo, ad esempio, i canti d’amore, ci accorgiamo facilmente di questo duplice apporto. Segnalerei intanto un piccolo elemento formale, che, per quanto limitato e relativo solo ad aspetti metrici, mi sembra tuttavia significativo. Lo notava già nel 1870 Giuseppe Morosi, il quale, nei suoi Studi sui dialetti greci di Terra d’Otranto, scrive: “E’ innanzi tutto da attendere al metro di questi canti. Il verso per eccellenza dei Greci moderni, il verso eroico o nazionale, è il cosiddetto verso politico, che si compone di due emistichi, il primo di otto, l’altro di sette sillabe, quello con un accento obbligato sulla sesta, questo sulla penultima. (…) Or questo genere di versi non è oggi qui più in uso, ma fu; e appare nei canti religiosi, come in alcuno di quelli di Corigliano, che, a memoria d’uomini, si soleano cantare in chiesa la notte del giovedì santo innanzi al sepolcro di Cristo (…) e appare qua e là nelle nenie, che io credo fossero un tempo tutte in versi politici”. Morosi porta come esempio di questo verso un singolare distico, di contenuto amoroso:
“Vasilikò platìfiddhe – ma ta sarànta fiddha:
sarànta s’agapìsane – ‘vò irta ce s’epìra”.
Versi analoghi si possono tuttavia trovare, nella raccolta del Palumbo, relativamente ad alcuni moroloja, ad esempio:
“Tis klei, tis klei is on bìsito – ce tis klei to pleo poddhì
Ola i’ prikà ta klàmata – ja cino pu torì”.
Questo mostra l’esistenza e sopravvivenza di originali soluzioni metriche soppiantate poi da nuove soluzioni assimilate dalla cultura circostante: infatti la quasi totalità dei canto d’amore in griko usano il verso endecasillabo, come avviene appunto negli analoghi canti d’amore in lingua romanza.
Per quanto riguarda i contenuti della poesia popolare d’amore, d’altra parte, non sembra esserci grande differenza tra i testi griki e quelli romanzi. Sia negli uni che negli altri, per usare ancora le parole del Morosi, “tutte ad una ad una si toccano le corde dell’anima: dal sentimento più soave a quello più cupo e, direi quasi, feroce. Vi è il fiore che timido e pudico sboccia alle prime aure d’aprile; vi è il fiore percosso, sgualcito, disfatto dal turbine. Vi è l’uomo che contempla rapito fuori di sé le sovrane bellezze dell’innamorata; l’uomo che afflitto ma sempre amante lamenta i dispetti e la noncuranza di lei e dolcemente impreca a tutto ciò che gli impedisce di vagheggiare l’incantevole sorriso; l’uomo fatto dispregiatore e incredulo dal disinganno; e l’uomo che tradito e disperato non sa che avventare maledizioni a colei che poco stante adorava”.
Nonostante la sostanziale somiglianza, però, tra la nostra e la poesia popolare romanza, non mancano nella poesia grika elementi che fanno ricordare la tradizione d’origine. Morosi stesso ne elenca alcuni, dei quali si troveranno nei testi riportati abbondanti esempi.
L’immagine/paragone del basilico come metafora della bellezza della donna non è rintracciabile nella poesia romanza, invece è caratteristica della tradizione della Grecia moderna, ed essa è rintracciabile anche nella nostra poesia. Inoltre, un modo per esprimere l’assolutezza e l’eternità di un amore, che si riscontra nella poesia d’amore della Grecia, è quello che parte dalla rappresentazione di un evento impossibile e assurdo che, al suo avverarsi, permetterebbe la fine dell’amore: il mare che si prosciuga, i morti che tornano in vita, ecc. Si tratta di esempi che troviamo anche nella nostra tradizione.
Un’altra particolare dichiarazione dell’innamorato, che continua a coltivare le sue speranze nonostante il matrimonio della donna amata, presente nella poesia greca, si può trovare anche nella nostra poesia, come in questo caso: “Adesso che tu sei sposata, io prego che tuo marito muoia e tu lo perda, e poiché da fanciulla non t’ho avuta abbia speranza, vedova, di averti”.
Un altro importante ambito nel quale si esprime la fantasia e l’arte popolare è quello dei canti religiosi. I testi della nostra tradizione dedicati a questo tema non sembrano, tuttavia, come scrive il Morosi nell’opera già menzionata, “ispirati da quell’affetto vero e profondo” che anima i canti d’amore. Molto spesso, infatti, si tratta di traduzioni di inni della Chiesa o di racconti relativi a particolari storie evangeliche. “E forse – continua il Morosi – non sono altro che reliquie di vecchi canti della Chiesa Greca composti in origine in una lingua che non era in tutto quella del popolo e che il popolo nel corso dei secoli venne via via trasmutando nella propria”. Accenti di più viva drammaticità e di maggiore partecipazione presenta un canto di Corigliano che descrive il tradimento e la disperazione di Giuda. Così come più sentite, nella loro semplicità e spontaneità, sono alcune preghiere da recitare prima di dormire o in altri momenti della giornata.
Da ricondurre all’ambito religioso è inoltre il canto della Passione, collegato ad una tipica rappresentazione rituale che aveva luogo durante la settimana santa. In questo periodo, gruppi di cantori si spostavano da un incrocio all’altro del paese, portando una fronda di ulivo ornata di nastri o un ramo di palma e un cestino per la raccolta delle offerte, e con questo canto tradizionale, accompagnato da una caratteristica e accentuata gestualità, raccontavano gli ultimi episodi della vita di Gesù, invitando gli astanti al pentimento ed alla preghiera.
Degna di particolare interesse è infine la produzione poetica dedicata al tema della morte. A differenza della poesia d’amore, che mostra in maniera evidente la sua vicinanza a temi e forme della analoga poesia romanza, nelle nenie funebri che rappresentano il dolore della morte sono invece presenti caratteristiche e contenuti del tutto particolari. Si tratta di composizioni tipiche della nostra tradizione e che vanno sotto il nome di “moroloja”: esse un tempo costituivano parte integrante delle pratiche messe in atto in occasione della morte di una persona cara ed erano affidate a donne che le interpretavano e adattavano alle varie situazioni, le prefiche.
Sulla singolarità di queste composizioni e sul loro collegamento con tradizioni antichissime vorrei riportare ancora quanto scrive il Morosi: “Basta leggerle appena per accorgersi tosto che la loro natura è tutta greca, che non può essere se non greco il sentimento che le dettò. Tutto è antico nella sostanza di questi canti, anzi tutto è pagano. Il dolore vi sgorga vivo e violento dalle radici del cuore; ma è sempre generato e nutrito dalle cose che ne circondano più da vicino; è un dolore umano ma non cristiano. Non mai un’allusione a’ premi od ai castighi di una vita futura, non mai l’ombra del concetto cristiano che la vita di quaggiù è un’espiazione, un esiglio, un pellegrinaggio ad una vita migliore. La felicità maggiore è il vivere, la maggiore sventura il morire”.
Sarà facile riscontrare la verità di tali affermazioni attraverso la lettura dei testi riportati.
Interessanti riflessioni riguardanti i nostri “moroloja” sono svolte da Brizio Montinaro in uno studio pubblicato nel 1994, dal titolo Canti di pianto e d’amore dell’antico Salento. In questo studio l’affermazione del Morosi riportata sopra circa un’origine ellenica piuttosto che bizantina di queste composizioni viene avvalorata con l’accostamento dei nostri testi ad alcuni riferimenti classici.
Così l’invito al pianto che costituisce l’incipit di molti “moroloja” viene confrontato con analoghi inviti presenti in Omero e in Euripide. Lo stesso avviene con la descrizione del pianto come una “dolce incombenza”, anch’essa rintracciabile oltre che nei nostri testi anche in quelli antichi. Anche varie similitudini della morte che compaiono nei nostri lamenti hanno una chiara origine antica: la morte come vento, oppure come sonno, o come pericoloso viaggio per passare ad un altro mondo. “All’idea della morte come viaggio” scrive inoltre Montinaro, “erano ispirate molte pratiche svolte intorno al cadavere a decesso appena avvenuto. In Terra d’Otranto il defunto veniva lavato accuratamente, vestito con il suo abito migliore e calzato di scarpe nuove. Nella bara sotto il corpo si ponevano l’abito da lavoro, la maglia di lana e altri indumenti personali. Infine si aggiungevano gli oggetti a cui era particolarmente legato. (…) Almeno fino ai primi decenni del XVII secolo, oltre quanto abbiamo detto, si usava porre in bocca al defunto anche una moneta che doveva servire come obolo da dare a Caronte”.
Nelle ninne nanne e filastrocche giocose, infine, rivolte soprattutto ai bambini, è facile ritrovare, espressi con semplicità e a volte con disarmante sincerità, pensieri, convinzioni, timori e aspettative tipici dell’animo popolare.
Tutti questi aspetti, brevemente richiamati, credo rendano la poesia della nostra tradizione degna di attenzione e di studio.
Salvatore Tommasi