Vito Domenico Palumbo: vita e opere

di Francesca Licci

 

È difficile definire, anche se per grandi linee, i tratti più salienti della personalità di V.D. Palumbo, data la vastità dei suoi interessi culturali e la varietà dell’esperienze di vita.

Nato a Calimera il 22 aprile del 1854, da famiglia agiata, fu avviato agli studi dallo zio sacerdote che con dedizione curò l’educazione prevalentemente umanistica del giovane.

Dopo aver seguito gli studi regolari presso il seminario di Otranto prima e in quello di Molfetta poi, fu costretto a rinviare le prove finali degli esami liceali per assolvere agli obblighi militari.

Durante il periodo di leva il Palumbo non solo approfondì i suoi interessi dandosi alla lettura dei classici greci e latini, ma ebbe modo di stringere legami con stimolanti ambienti culturali, uscendo così dalla ristretta cerchia provinciale in cui era vissuto.

Terminata la leva, studiò per un anno a Firenze, presso la Scuola di Scienze sociali e poi per un altro anno presso l’Istituto di studi superiori; quindi a Napoli.

Dopo la parentesi napoletana durata circa tre anni, durante la quale si dette a studi giuridici, egli ritornò agli interessi predominanti e, distinguendosi nel campo degli studi medioevali, ottenne nell’accademico 1882-1883 una borsa di studio dal Ministero della Pubblica Istruzione, per recarsi ad Atene e perfezionarsi in greco moderno (1).

 

AD ATENE

 

Negli ambienti intellettuali ateniesi strinse amicizie, destinate a durare tutta la vita, con uomini di cultura tra i quali il commediografo Babis Ànninos, Polìtis, Surìs, Polèmis, Evanghelìdis e in particolare con Thermos Ànninos che divenne collaboratore nella rivista “Cultura Salentina” diretta da Palumbo.

Sempre a questi anni è da assegnarsi l’amicizia con Nikòlas Polìtis (2) (Kalamata 1852 – Atene 1921), preziosa per la successiva formazione del Palumbo.

Al Polìtis infatti egli dedicherà, e per attestazione di amicizia e per riconoscimento del proprio debito culturale, la seconda edizione dei canti Popolari Rodii (3).

Il legame tra i due studiosi si consolidò appunto grazie alla stessa affinità di interessi ed al comune amore per quel mondo autentico dei canti, dei proverbi, dei riti e delle tradizioni.

Ad Atene il Palumbo, divenuto socio del circolo filologico Parnassòs, fondato da un gruppo di giovani nel 1865, collaborò all’omonimo periodico presentando una traduzione, però inedita, della “Papessa Giovanna” di Emanuele Rhofdis (4)

L’originale, che potrebbe inserirsi nel filone dei romanzi storici, in realtà si allontana dai criteri tradizionali e per le motivazioni e per il finale burlesco; ma furono forse proprio questi elementi originali a determinare la scelta del Palumbo.

 

TORNATO IN PATRIA…

 

Tornato in patria, si dette all’insegnamento di materie letterarie (1884-1896) nei ginnasi pugliesi, ma non interruppe i viaggi e i rapporti con i gli ambienti italiani e stranieri.

Da letterati greci di Alessandria nel 1896, gli fu rivolto l’invito di tenere una conferenza sulla conservazione del greco nelle isole linguistiche; sollecitato dall’argomento congeniale ai suoi studi, il mantenimento cioè del “griko” nell’ambito della Grecìa, chiese ed ottenne dal Ministero della Pubblica Istruzione di recarsi ad Atene.

La molteplicità degli interessi e dei rapporti culturali durati quasi per tutto l’arco della vita, difficilmente avrebbero fatto presagire la solitudine degli ultimi anni trascorsi a Calimera “tra la più placida indifferenza dei suoi concittadini” (5)

Trova così, ancora una volta conferma, per le acrimoniose, o nel migliore dei casi superficiali, opinioni dei conterranei, la validità del detto “Nemo propheta in patria”.

Da ciò la dicotomia tra l’immagine che ancora oggi circola tra i calimeresi e cioè quella di una persona scorbutica, scontrosa e introversa, sprezzante del “volgo” tendente a isolarsi nel proprio mondo interiore, incapace di adeguarsi alla mentalità della società (paesana) e il profondo interesse e l’amore, che traspare dagli scritti, per il proprio paese e per il destino della lingua natale.

Più di una volta il Palumbo infatti si era scagliato con la sua poesia contro chi aveva consentito la graduale scomparsa nell’uso comune e letterario del “griko” e con la scusa di favorire un pretestuoso processo di acculturazione aveva sollecitato le classi meno abbienti a servirsi di un italiano

scorretto: “ Mi pa’ ce lèome citto chameno ‘Kalin emera’ pu lèane arte ampì! Lèome ‘Bongiornu’ kundu lei to jeno, ce lèome ‘Signornò’ ce ‘Signorsì’” (6)

Non mancò tuttavia chi si accostò con ammirazione al Palumbo, con l’intento di mettere in rilievo la personalità e di delineare il ruolo svolto nella ristretta cerchia culturale salentina.

LE OPERE

 

Il primo a valorizzare la figura fu Giuseppe Gabrieli, l’opera del quale venne continuata dopo il ritrovamento delle carte del Palumbo, dal glottologo Oronzo Parlangeli, che approfondì gli aspetti linguistici, e da Paolo Stomeo che curò quelli letterari. E fu proprio lo Stomeo a mettere insieme molti fogli sparsi, articoli pubblicati in riviste e tre quadernetti in una antologia intitolata “ Rodia ce Kattia”, titolo che lo stesso Palumbo per quanto si sa, avrebbe voluto apporre ad una raccolta di scritti, pubblicata postuma, con lo pseudonimo di Vito Montagna.

I componimenti raccolti sono stati raggruppati in un prologo e in tre sezioni :      “ Canti d’amore, canti di vario argomento e traduzioni in greco calimerese da poeti italiani e stranieri” (7).

Un altro appassionato studioso locale, Giannino Aprile, autore di un’antologia apparsa dopo la sua morte, riservò ampio spazio alla figura e alle opere di Vito Domenico Palumbo (8).

“O TESTAMENTU TU RONZU”

 

Particolare rilievo merita nella raccolta un poemetto satirico “O testamento tu Ronzu” che il Palumbo scrisse intorno al 1901, brani del quale egli aveva pubblicato sulla “Penna Rossa” un giornale leccese (9).

Il protagonista prima di rendere l’anima al diavolo chiama i figli al capezzale e spronandoli a seguire il suo esempio, rivela loro gli stratagemmi a cui è ricorso per arricchirsi.

Numerosi sono i consigli paterni: far finta di essere religiosi, esibire un moralismo sostanzialmente falso, sposare donne ricche, trattare con apparente benevolenza i lavoratori, nella realtà poi sfruttarli.

Il poemetto suscitò l’indignazione di un amico calimerese che accusò lo scrittore di aver voluto ingiustamente rappresentare, servendosi del protagonista “Ronzo” l’atteggiamento ipocrita e ambiguo della borghesia paesana.

Il Palumbo risolse l’equivoco affermando che la figura di Ronzo aveva valore emblematico e rappresentava un modello umano riscontrabile in tutti i paesi e in tutte le epoche.

LE TRADUZIONI

 

Rimane ancora degna di nota la versione in “Griko” e in italiano dell’ opera “Il corvo” di Allan Poe, pubblicata nello stesso metro dell’originale, nel 1903.

L’ineluttabilità del destino viene continuamente sottolineata dal malefico animale che con martellante monotonia ripete allo scrittore un cupo ritornello: “Mai più, mai più”.

L’alto potenziale di resa espressiva e concettuale del “Griko” viene poi abilmente impegnato per la traduzione di alcune liriche del poeta tedesco Heine, particolarmente congeniale al Palumbo per la sua drammatica e sofferente vena poetica.

La prima opera pubblicata dal Palumbo risale al 1879, ed è la traduzione “Vita-Sogno” (10) del dramma di Dimitris (1843-1873), scrittore neogreco dal temperamento malinconico vicino al pessimismo foscoliano e leopardiano.

Sfilano nell’originale greco gli antichi filosofi, i poeti e le etere, laudatòres temporis acti, di un’epoca cioè che si contrappone alla dissolutezza dell’era moderna, alla “Mode Universelle” e in particolare alla scandalosa vita parigina.

Nel brano che il Palumbo tradusse, gli dei, stanchi della loro vita monotona vanno alla ricerca di un interesse che riesca a movimentarla, creano così gli uomini, fantocci collocati sulla terra, privi di una reale autonomia, destinati a lottare contro le spinte contrarie del destino ed in balia così della gioia, come del dolore e dell’infelicità (11).

 

“LE LEUCHESI” E “I CANTI RODII”

 

I temi dominanti dell’opera, la caducità della bellezza umane e le vanità delle gioie dell’amore, vennero ampliati e sviluppati dal Palumbo in un’opera originale dal titolo “Le Leuchesi”.

Pubblicate nel 1913 con lo pseudonimo “V. Taube” versione in tedesco dal suo cognome, vennero dedicate ad Adolfo Colosso.

Il poeta esalta in versi le bellezze e le grazie delle donne di Leuca. È attratto dalle scattanti e nello stesso tempo sensuali movenze del corpo e dai delicati lineamenti del volto (12), ma dietro il godimento estetico, si annida l’amaro sentimento del tempo e quindi della caducità della bellezza:

“Perché nascon le cosa? L’uomo, il rospo, le rose? I timi? Per morire?” (13)

Non sempre però il volgere degli anni comporta l’imbruttimento, alla sfolgorante bellezza di gioventù si contrappone infatti la dolcezza e la dignità della figura materna. Ed è con trepidazione che il Palumbo rievoca i ricordi esternando il profondo e sconfinato affetto che per tutta la vita lo accompagnò: la madre procede pian piano appoggiandosi ad un vecchio bastone, a passi lenti; si reca verso la pianta di gelsomino e raccoglie fiori che depone dinanzi all’immagine della Madonna, accompagnandoli con la rituale preghiera dell’ “Ave Maria” invocata per il figlio (14).

Negli stessi anni il Palumbo tradusse e pubblicò la seconda edizione dei “Canti di Rodii” (15), un interessante testo di greco medioevale, d’argomento amoroso.

Il primo ad interessarsi di tale opera anonima, il cui scritto era conservato a Londra con il titolo di “Στìχοι peri eρωτος χαι αγαπης” fu Wagner che lo pubblicò nel 1878 intitolando “Alfabeto d’amore”. L’esame del testo venne poi approfondito dal Polìtis e sulla scia di quest’ultimo come già si è accennato, dal Palumbo (16).

Il Palumbo discostandosi dalle tesi di Wagner, il quale sosteneva l’origine rodiese dei canti, affaccia l‘ipotesi che gran parte dei canti sia originaria di un’area comune più estesa. Solo alcuni invece sarebbero riferibili all’area rodiese.

Il rigore metodologico si manifesta quando egli, evitando di trarre conclusioni affrettate, afferma che la certezza sull’origine, può derivare solo da uno studio comparativo dei dialetti, tra cui quello rodiese.

Per quanto riguarda “gli alfabeti” il numero dei canti non corrisponde però al numero delle lettere: il Palumbo infatti informa che se in origine era normale rispettare il criterio per cui ogni componimento doveva cominciare con una lettera scelta secondo l’ordine alfabetico, col passare del tempo tale norma non venne più seguita e i componimenti furono di numero indeterminato anche se rimasero parzialmente ordinati “per ordine alfabetico come i vocaboli del vocabolario, per comodo” (17)

INTERESSI POLITICI E CULTURALI

 

La poliedrica personalità del Palumbo non si limitò agli interessi letterari e artistici e anche se non divenne mai uomo d’azione, fu attento agli avvenimenti dell’epoca e non mancò di dare il suo contributo letterario ai più importanti temi politici.

Nel libretto “L’Europa delinquente” pubblicato nel 1912, si scaglia contro l’opportunismo di quanti sono disposti, pur di definire pacificamente la questione libica, ad una soluzione rinunciataria privandosi delle isole dell’Egeo per restituirle alla Turchia (18).

Affrontando temi così attuali, l’uomo di pensiero si trasforma e, ai toni smorzati, subentra, invece, lo sdegno e l’ironia; allo spirito di parte si contrappone il desiderio di dare il proprio contributo al trionfo della verità.

Ma il Palumbo come afferma un anonimo necrologio “fu, più che scrittore, temperamento di giornalista che in un ambiente meno ristretto della nostra provincia, avrebbe avuto ben più alta considerazione” (19).

L’attività in questo campo continuò per tutto l’arco della sua vita: infatti fu fondatore e direttore di riviste “KAΛHMERA“, “Cultura Salentina”, ed “Helios”(20), e collaboratore di molte altre come la rivista trimestrale “Apulia” su cui appaiono articoli dedicati al “griko”.

Il Calimerese viene studiato in rapporto agli altri dialetti della Grecìa e gli stessi temi dei canti popolari vengono raffrontati con gli analoghi motivi della tradizione letteraria italiana e portoghese (21).

Alle ninne nanne definite come l’espressione di uno dei sentimenti più vivi e profondi e prepotenti, il materno (22) dedicò, sempre sulla stessa rivista, uno studio.

Dopo averle analizzate, le classificò in relazione alla circostanza in cui venivano cantate distinguendole in canti atti ad addormentare il bambino e canti destinati a divertirlo. Ma è su “KALHMERA“ che appare il piano di un’opera di ampio respiro dedicata alle “Reliquie popolari greco-salentine”.

Il materiale raccolto in vent’anni di paziente ricerca condotta nei paesi della superstite colonia greca verrà, come egli annunzia, suddiviso in due serie trattanti rispettivamente la poesia e la prosa (23). Il testo in greco sarebbe stato corredato di traduzione italiana, apparato critico e note di commento.

Gli intenti dell’autore purtroppo per motivi economici andarono delusi; di tutta l’opera infatti appare solo il primo volume: in esso si trova inserita l’elegia “Lamento”, piccolo tesoro poetico di circa duecento versi, espressione, forse, tra le più vive della letteratura grecanica calimerese.

Il brano composto da un poeta anonimo nel 1556 per la morte dell’amata Caterina, esprime con lirici accenti il dolore dell’innamorato e la disperazione per la perdita subita.

Affidato per tradizione alla trasmissione orale, fu per la prima volta pubblicato dal Palumbo che ne assicurò, insieme ad altri canti, la sopravvivenza.

Non sempre la pazienza certosina del Palumbo, ebbe uguali risultati; il non aver potuto egli curare personalmente la pubblicazione delle sue carte, comportò infatti, dopo la sua morte, la perdita di numerosi scritti. Si deve al nipote, il pittore Michele Palumbo il recupero di gran parte dei fascicoli manoscritti. Essi vennero in seguito affidati per lo studio e l’edizione, al glottologo Oronzo Parlangeli.

La morte prematura non consentì allo studioso di portare a compimento l’opera che con entusiasmo e notevole acume aveva intrapreso; le carte manoscritte passarono in custodia alla vedova Parlangeli e da quest’ultima, messe a disposizione dell’Università.

 

NOTE

 

1 P. STOMEO, Vito Domenico Palumbo Neo-ellenista Greco-Salentino, in “Studi Salentini” Vol. I, 1956, p.140.

2 Per la formazione del Polìtis cfr. M. Vitti, Storia della letteratura neo-greca, Torino 1971, p.263

3 Così si esprime il Palumbo “Non ti meraviglierai, spero che io dedichi per due motivi: Primo, perché sia un attestato, per quanto modesto della schietta ed inalterata amicizia di tanti anni; amicizia che penso ha assunto quasi il carattere direi sacro di fraternità ideale. In secondo luogo, perché nel mutato suo aspetto, se non nella mutata veste, spetta a Te, insigne e dottissimo maestro della materia il maggior merito pei tuoi sagaci ed eruditi studi al riguardo” Cfr. Traduzione dei canti di Rodi, Lecce 1913, p.VI.

4 M. VITTI, Storia della letteratura neo-greca, Torino, 1971, pag.242

5 F. GABRIELI, L’ultima favella greco-salentina, in “Gazzetta del Mezzogiorno”, I gennaio 1957.

6 G. Aprile e i suoi traudia Galatina 1972 p.258 “Forse che diciamo quell’indecente “kalin emera” che dicevano poco tempo fa? Diciamo Buongiorno come dice la gente e diciamo Signornò e Signorsì”.

7 P. STOMEO, Roda ce Kattia Lecce, 1971, p.XII

8 G. APRILE, cit. pgg. 217-309.

9 Presso la Biblioteca provinciale di Lecce sono reperibili alcuni numeri de “la Penna Rossa”, settimanale leccese con alcune puntate del poemetto tradotto dall’autore stesso: n.10; n.11; n. 16; anno III 1909.

10 Cfr. Traduzioni dal Greco-moderno “Vita-Sogno”, Lipsia 1881, pgg.7-26.

11 Nella prefazione dell’opera il Palumbo preannunzia la composizione, mai in realtà portata a termine, di una “Antologia poetica della poesia neo-greca popolare e letteraria con testo a fronte”.

12 Cfr. “Tanagrina”, in “Leuchesi, Calimera 1914 p.105

13 Cfr. “A uno stelo di pino”, ibidem, p.29

14 Cfr. “Mamma’, ibidem, p.51

15 Già una prima pubblicazione della traduzione dei canti di Rodi era avvenuta nel 1882. Cfr. P. Stomeo, “Vito Domenico Palumbo neoellenista greco talentino” in Studi Salentini v.1, Galatina 1956, p.163

16 Il piano dell’opera appare nella prefazione insieme alla storia del manoscritto e a considerazioni di carattere linguistico. Sei sono le sezioni tramandate, di cui tre sono composte di alfabeti, e cioè ogni componimento è contrassegnato, all’inizio di parola, da una lettera d’alfabeto. Una serie comprende l’ “ematologo o il cento rispetti” in cui la parola iniziale di ogni canto corrisponde ad un numero. Le ultime due serie, infine, sono composte di canti più o meno brevi, sempre di materia amorosa.

17 Cfr. Canti di Rodi, Lecce 1913, p.XVIII.

18 Cfr. in L’Europa delinquente, “Le isole Egee”, Lecce, 1912, pagg. 14-18.

19 Necrologi, in Rivista storico-salentina, an.XII 1920

20 L’esperimento editoriale durò solo pochi anni, infatti il Palumbo fu costretto ben presto ad interromperlo per motivi economici.

21 Cfr. “Saggio di un commento dei Canti greco Salentini” in Apulia, 1910, v.1, pag.29

22 Cfr.”Ninne nanne greco salentino” in Apulia, 1912 III, pag. 181.

23 Serie prima Poesie

1) Canti di fonte letteraria;

2) Canti popolari veri e propri, o divenuti tali;

3) Moroloja (nenie) – Ninne Nanne – Indovinelli;

Proverbi – Motti – Sentenze, ecc.

Serie seconda-Prose

1) Conti del ciclo relativo al mito (se così vogliamo dirlo) di Eros e Psiche;

2) Conti relativi ai vari cicli mitici;

3) Conti del paese di Scemeria;

4) Conti di papa Galeazzo;

5) Apologhi, favole, storielle, ecc.;

Prolegomeni ed appendici contenenti:

1) Il paese, storia letteratura, notizie, ecc.;

2)Credenze, Usi, Costumi, ecc.;

3) Studi dialettali, Fonologia, Morfologia, Sintassi;

4) Vocabolario etimologico.

Cfr. “Reliquie greco salentine” in KAΛHMERA, n.1, I° giugno 1900, p.16.

Altre risorse:

  1. Canzoniere d’amore di Vito Domenico Palumbo
  2. Canti satirici filosofici e politici di Vito Domenico Palumbo
  3. Il testamento di Oronzo

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