Fiabe e favole popolari: Interpretazioni, significato e valore

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1. Sulle tracce del manoscritto

Il manoscritto che è all’origine di questo libro è ancora tra le mie mani, accattivante e ostile: cinque vecchi e logori quaderni, alcuni più sottili, altri più voluminosi, essi stessi raccolte di quaderni e foglietti tenuti insieme da una rilegatura approssimativa. Solo un’estrema delicatezza permette ormai alle pagine ingiallite, che continuo a sfogliare nell’ennesimo tentativo di decifrare le poche parole rimaste oscure, di non staccarsi dal filo che le tiene insieme, e il dorso indurito dei quaderni, aperti e richiusi di continuo, si è in gran parte sbriciolato o staccato.

Si tratta dell’ultimo approdo d’un odissea in fin dei conti fortunata per questo lavoro di Vito Domenico Palumbo, i cui manoscritti, libri e riviste, si dice, furono venduti a peso dopo la sua morte tra le botteghe del paese.

Raccolti infatti dal noto filologo Oronzo Parlangeli, cui si deve la loro conservazione, i quaderni dello studioso calimerese, che contengono un’eccezionale quantità di testi popolari in lingua greco-salentina raccolti tra il 1883 e il 1912, sono stati consegnati qualche anno fa, per disposizione degli eredi, all’associazione culturale “Ghetonìa” di Calimera, che da tempo opera per il recupero e la valorizzazione del patrimonio linguistico e culturale grecanico, e da questa, infine, affidati a me.

L’esistenza della raccolta di materiale folkloristico della Grecìa salentina compilata da V. D. Palumbo era nota agli studiosi, non solo locali. Il Dawkins, ad esempio, nell’introduzione a Modern Greek Folktales (Oxford, 1953), si mostrava informato e notava che, mentre delle fiabe dell’area grecofona di Calabria si avevano numerosi esempi, di tutto ciò che era stato registrato dal Palumbo e che riguardava l’area greco-salentina quasi nulla era stato pubblicato (1).

Ora, a un secolo circa di distanza, i quaderni di Vito Domenico Palumbo, almeno per quel che riguarda fiabe e racconti, non sono più un tesoro nascosto.

Come per ogni tesoro, tuttavia, sia esso sepolto tra le rovine o corroso dal tempo, perché sia riportato alla luce è necessaria un’attenta opera di scrostatura, di riparazione e di rifinitura, anche in questo caso s’è dovuto, per così dire, procedere tra i calcinacci, e la scoperta, nel bene e nel male, reca l’impronta del paziente e faticoso lavoro di restauro. Nel quale, devo confessare, pur avendo raccolto indicazioni e suggerimenti di esperti, ho preferito procedere da solo: non per presunzione, ma per necessità.

I quaderni contengono in parte storie raccolte dalla viva voce di narratori calimeresi o di altri paesi grecofoni e trascritte di prima mano dal Palumbo; in parte trascrizioni altrui, forse commissionate dallo stesso studioso; in parte racconti scritti direttamente da narratori appena alfabetizzati; un quaderno, che non reca date ed è anonimo, contiene esclusivamente testi di Martano. Nell’insieme, dunque, un coacervo di testi, scritti con grafie diverse e in genere di non facile interpretazione: alcuni completi, altri solo iniziati, altri spezzati in più parti; alcuni lunghissimi, altri estremamente sintetici, altri ripetuti in più versioni; a volte solo degli schemi.

Un tesoro, insomma, allo stato grezzo, bisognoso d’esser decifrato, selezionato, organizzato. Una volta, infatti, riprodotta con fedeltà e alla lettera ogni pagina dei quaderni, m’è sembrato che il risultato fosse, in tali condizioni, impresentabile, utile forse per qualche specialista alla ricerca di insoliti e oscuri dettagli, ma precluso ai più. Da qui la decisione di archiviare la prima tappa del lavoro, che conservo comunque per l’eventuale ricercatore diffidente e volenteroso, e la scelta di intervenire.

Un intervento sul piano linguistico, anzitutto. Tra i vari testi verificavo, infatti, la più grande discordanza nelle forme della trascrizione, che spesso non mostrava alcuna preoccupazione di tipo grammaticale. E’ noto del resto che il greco salentino, il cosiddetto griko, conservatosi per secoli come lingua parlata, non ha una comune tradizione scritta. Benché alcuni studiosi, tra cui il Palumbo, abbiano prodotto e pubblicato composizioni pregevoli in questa lingua, ponendosi il problema di una sua coerente rappresentazione grammaticale, si è ben lontani dal ritenere che esista un codice di scrittura concordemente accettato e utilizzato. In tale situazione, ho ritenuto di dover riscrivere tutti i testi, dando loro, pur nel rispetto di ogni parola ed espressione popolare, uniformità fonetica e grammaticale, secondo criteri che esporrò in seguito, nonché organizzandoli, anche sotto il profilo della punteggiatura e della scansione dei periodi, in contesti significativi. Si è trattato forse di una scelta di dubbia correttezza scientifica, finalizzata tuttavia a dare al griko uniformità di scrittura, facilitando, una volta che esso sia scomparso dalla memoria, la sua conservazione. D’altra parte, credo, anche Vito Domenico Palumbo, se avesse avuto la possibilità di pubblicare i suoi appunti, avrebbe agito allo stesso modo.

In secondo luogo, sono intervenuto sul piano del contenuto. Ho selezionato il notevole materiale, escludendo i testi incomprensibili, incompleti, non pertinenti; ho poi classificato i racconti, per meglio identificarli e confrontarli, raggruppando le versioni simili, delle quali generalmente ho utilizzato solo una, quella per me più ricca o interessante; li ho infine nuovamente rimescolati, preferendo, nel distribuirli in successione, un criterio di varietà ad un criterio di suddivisione per generi o per temi.

Ma, parallelamente a questo lavoro, incuriosito e sedotto dal materiale che andavo leggendo e decifrando, inesperto di fiabe e di folklore, mi son lasciato vincere dalla “smania”, per usare un’espressione di Italo Calvino (2), dei confronti e delle interpretazioni, e dal desiderio di attingere dal pozzo inesauribile della ricerca flokloristica quel che mi pareva adatto alle storie che avevo tra le mani. Accadeva così anche a me quel ch’era accaduto all’ignara fanciulla di una di queste fiabe: un logoro pezzo di suola si trasformava nelle sue mani in moneta d’oro; un’esile trama, dal contenuto scarno e disadorno, rivelava origini insospettabili, paralleli illustri, richiami suggestivi. Ogni testo diventava prezioso, e le somiglianze, i riscontri, che sulle prime mi pareva togliessero originalità ai nostri racconti, erano invece la testimonianza e la garanzia della loro autenticità. Le magiche storielle raccontate dall’umile vecchietta calimerese si dilatavano allora nel tempo e nello spazio, fino a comprendere a volte dentro di sé tutta la storia umana e l’intero universo.

Di questo lavoro di approfondimento, che mi è sembrato potesse in qualche modo valorizzare le storie più o meno belle, più o meno conosciute, della raccolta, ho voluto render conto nelle note; non col proposito di preferire una tesi alle altre o di avanzarne alcuna, ma semplicemente per mostrare la vastità e ricchezza di problemi che anche il più piccolo racconto apre e sollecita.

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2. Palumbo folklorista

La rilevanza sul piano filologico (la registrazione di un antico e prezioso patrimonio linguistico, colto dal vivo in un preciso momento della sua evoluzione) e sul piano del folklore (la più ricca raccolta di fiabe e racconti popolari, non solo della Grecìa salentina, ma di tutto il Salento) credo ponga il lavoro di Vito Domenico Palumbo, per quanto ad uno sguardo retrospettivo, tra i risultati più interessanti dell’attività di ricerca che si è svolta in Italia, negli ultimi decenni dell’Ottocento, nell’ambito della letteratura popolare.

E’ noto che, sulla scia del Romanticismo tedesco, la ricerca delle tradizioni popolari s’era diffusa, nella seconda metà dell’Ottocento, in diverse nazioni europee, coniugandosi spesso con l’affermazione dell’identità nazionale e facendo sì che, come nota il Cocchiara, “mentre si affermava il concetto moderno della propria nazionalità, il contatto col popolo faceva scoprire nuovi tesori di vita e di arte” (3).

Tesori che, sull’esempio dei fratelli Grimm, molti studiosi iniziarono a raccogliere e studiare, dalla Francia all’Inghilterra, dall’Italia alla Russia, rivolgendosi direttamente alla gente più umile, dei cui racconti riportarono fedelmente la semplicità e la freschezza narrativa. In Italia i primi lavori del genere furono compiuti da ricercatori tedeschi: in Sicilia, ad esempio, Laura Gonzenbach, tra il 1868 e il 1870, mise insieme e tradusse in tedesco una raccolta di fiabe siciliane.

Risalgono allo stesso periodo, comunque, anche le prime raccolte di autori italiani: Angelo De Gubernatis pubblicò nel 1869 le Novelline di Santo Stefano; Domenico Comparetti, l’insigne grecista che si interessò per primo pure del greco salentino, pubblicò nel 1875 le Novelline popolari; è dello stesso anno la pubblicazione della raccolta di Giuseppe Pitré Fiabe, novelle e racconti del popolo siciliano; nel 1977 uscì la Novellaja fiorentina di Vittorio Imbriani.

Contemporaneamente si sviluppò, attraverso la pubblicazione di riviste specializzate, l’interesse e lo studio della letteratura popolare; furono discussi e perfezionati i metodi di ricerca; furono elaborate teorie suggestive.

Di tutto questo fervore di studi folkloristici, a livello nazionale ed europeo, non dovette essere ignaro il Palumbo, e anche tra le pagine dei suoi quaderni, nelle parti scritte da lui, si possono trovare tracce evidenti, benché frammentarie, del grado di consapevolezza metodologica e della curiosità critica con la quale egli s’avvicinava alla letteratura popolare.

A lui si potrebbero correttamente attribuire le affermazioni che l’Imbriani premise alla sua Novellaja, corrispondenti del resto al canone che il Müller suggeriva a Giuseppe Pitré, di “dare le novelle con le ipsissima verba del narratore” (4): “Intendevo dar le novelle – sciveva l’Imbriani – tali e quali m’erano state raccontate… Mi stava a cuore di ritrarre esattamente la maniera, in cui fraseggia e concatena i suoi pensieri il volgo”; e ancora: “Le ho poste in carta con sommo zelo, tali e quali uscivan di bocca a qualche cechino, a qualche vecchietta, a qualche balia, a qualche nonna, usa ad intrattener con essa i nipotini. Ho esagerata l’esattezza, segnando persin le esclamazioni e gli intercalari viziosi, persino i foderamenti di parole; non supplendo le lacune; non correggendo gli spropositi evidenti… Insomma non ho mutato od omesso od aggiunto nulla, nulla, nulla” (5).

Nelle trascrizioni dello studioso calimerese, l’estrema attenzione per la riproduzione esatta delle parole e delle espressioni dei narratori si arricchiva d’una motivazione tutta particolare, legata alla singolarità linguistica del materiale da lui raccolto: una motivazione filologica, che lo spingeva, ad esempio, a verificare il significato, ogni volta una parola gli risultasse nuova, oppure a farsi dire il perché un’espressione romanza venisse preferita alla corrispondente espressione greca.

Non solo; la riproduzione fedele del racconto popolare si allargava e comprendeva per il Palumbo perfino il contesto della narrazione, diventando in tal modo un documento storico di vita quotidiana. Anche in questo caso, la sua non era una posizione isolata; già la Gonzenbach affermava di riferire scrupolosamente, oltre a locuzioni e passaggi difficili, anche “il giudizio morale sopra i fatti narrati, lo sguardo invidioso rivolto alla fortuna dell’eroe in contrasto con le misere condizioni della narratrice e degli ascoltatori” (6).

I quaderni ci offrono allora, quasi involontariamente, uno spiraglio attraverso il quale possiamo sbirciare, con occhio curioso, la scena che si svolgeva cento anni fa: un quadro semplice e familiare con al centro una figura narrante e tutt’intorno schizzi di vari personaggi, dallo zio brontolone e divertito, alla madre premurosa, alla ragazzina maliziosa, al mendicante importuno, alle comari pronte a correre in chiesa per la predica.

Infine, in brevi parentesi, o con qualche parola a pié di pagina, Palumbo inserisce delle annotazioni, forse traccia per uno studio successivo, comunque indizi della consapevolezza dei problemi e delle teorie che attorno alle fiabe e ai racconti popolari s’andavano elaborando: si tratta di riferimenti mitologici (“Sirene”, “Tieste”, “Achille in Sciro”, “Gorgoni”), o richiami letterari (“Macbeth, “Torrismondo”), o filologici (“viene dal sine fine dicentes”), o rilievi sulla provenienza (italiana o greca) dei racconti.

peppina con le donne in cortile

3. Le nostre fiabe

Nella già richiamata introduzione a Modern Greek Folktales, Dawkins, dopo aver lamentato la mancata divulgazione della raccolta del Palumbo, si domandava se le storie ivi contenute fossero più vicine a quelle greche o alle storie del meridione d’Italia. Problema, ovviamente, per noi di grande interesse, che lo stesso Palumbo, come si è accennato, doveva essersi posto, propendendo forse, almeno in alcuni casi, per l’origine italiana.

Egli giungeva a tale conclusione notando nei racconti la presenza di formule o espressioni di derivazione romanza: osservazione in sé giusta, ma non definitiva, se si tien conto che l’uso di un doppio codice linguistico, cui peraltro i grecofoni erano ben abituati, poteva anche esser dovuto a ragioni di tipo estetico (una narratrice, ad esempio, interrogata sul perché utilizzasse espressioni in dialetto romanzo, risponde che così “il racconto viene meglio”).

La grecità delle nostre fiabe è comunque un problema interessante, degno di verifica e approfondimento. Avventurandomi, come dicevo, in un lavoro di confronto dei testi che analizzavo, lungo una strada che va dal vicino al lontano, mi son lasciato guidare da alcune ipotesi, o meglio da alcuni interrogativi, che diventavano via via sempre più complessi e ingarbugliati.

Anzitutto, si può parlare di una tradizione comune nella letteratura popolare dell’area grecofona salentina? I termini del confronto sono, in questo caso, il lavoro di Stomeo sui racconti di Sternatia, alcuni testi riportati dal Cassoni e dal Morosi, una piccola e più recente raccolta di carattere divulgativo di L. Chiriatti. Materiale tutto sommato esiguo, dal quale è difficile poter trarre una conclusione, ma, come si potrà osservare in dettaglio nelle note, neppure del tutto insignificante: ad esempio, dei trentuno racconti riferiti da Stomeo, più della metà presentano forti somiglianze, nello sviluppo o nei particolari, con le storie della nostra raccolta.

Non si potrebbe, però, più correttamente, sostenere che in un caso e nell’altro si tratta di un comune patrimonio regionale dal quale anche i grecofoni hanno attinto, con gli ovvi adattamenti linguistici? Anche in questo caso, il confronto con altre raccolte, soprattutto con quella più ricca e sistematica di La Sorsa, mette in evidenza significative coincidenze: quasi la metà dei nostri testi trovano corrispondenze con i testi di La Sorsa. La Grecìa, insomma, nonostante fosse un’isola a livello linguistico, non doveva esser certo isolata sotto il profilo culturale.

Allargando comunque il confronto, la trama delle relazioni si infittisce e si moltiplica: ecco spuntare somiglianze con i Testi neogreci di Calabria, ma, soprattutto, rispetto alle altre regioni italiane, numerosissimi e notevolissimi riscontri con la letteratura popolare siciliana.

A questo punto, l’esame di alcune raccolte di fiabe neogreche, oltre a mettere in evidenza molteplici e interessanti punti di contatto tra i testi greci ed i nostri, spinge a porre il problema del nostro patrimonio folkloristico in termini più ampi e generali; l’accostamento, per quanto riguarda trame, situazioni, particolari, tra le fiabe della Grecìa salentina, quelle più generalmente diffuse in Puglia, quelle calabresi, quelle siciliane e le fiabe neogreche, giustifica l’esistenza di una vasta area di diffusione comune, come già aveva intuito il Dawkins: “Dopo aver letto le tesi linguistiche di Rohlfs, – egli scrive infatti – sono incline a ritenere che, a causa dell’ampia mescolanza di sangue greco in tutta l’Italia a sud di Napoli, le fiabe calabresi avrebbero stretti contatti con quelle del Sud Italia; avendo comunque, le une e le altre, così come quelle siciliane, molto in comune con le fiabe della Grecia propriamente detta” (7).

E tuttavia, come in un gioco di scatole cinesi, procedendo di fiaba in fiaba, non si tarda a scoprire alla fine, anche per la maggior parte dei racconti delle nostre umili novellatrici, l’orizzonte affascinante ed enigmatico della loro diffusione universale. Enigma attorno al quale si arrovellarono gli studiosi fin dall’inizio, elaborando teorie suggestive (che ogni motivo riconducesse ad un’unica fonte indiana o che analoghe situazioni antropologiche e sociali generassero nell’immaginario uguali rappresentazioni) o ricercando di ogni racconto, attraverso l’esame di complicate migrazioni, l’archetipo, cioé la composizione originaria, opera di un unico autore (8).

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4. Come alberi secolari

Da un lato, dunque, il lavoro di confronto tra le fiabe conduce lentamente e quasi sempre alla scoperta d’un loro nucleo universale, dall’altro, però, non è difficile riconoscere nelle fiabe di ogni popolo, e più in particolare di ogni comunità, caratteristiche e tratti assolutamente originali. Si può correttamente dire che ogni comunità si rispecchia e si rappresenta nelle sue fiabe; in esse riversa e trasmette la sua struttura sociale e la sua visione del mondo, le sue convinzioni e i suoi problemi, le sue ansie e le sue speranze.

E’ possibile perciò riconoscere in ogni racconto, come qualche studioso ha suggerito, una specie di stratigrafia storica, come nella sezione di un albero secolare. Il ricercatore attento può distinguere i rivestimenti successivi, riuscendo a volte a venire a capo e spiegare, attraverso il suo lavoro, apparenti contraddizioni.

Considerate in questa prospettiva, anche le fiabe della nostra raccolta potranno essere considerate come un documento storico dell’epoca in cui venivano narrate, uno specchio fedele dei suoi aspetti sociali, economici, culturali.

Si troverà così, ad esempio, nell’ambientazione implicita di alcune vicende, la tradizionale configurazione urbanistica o la tipica struttura delle case a corte, dove una pluralità di famiglie ruota attorno ad un unico spazio. Oppure si troverà, nelle relazioni tra i diversi protagonisti di un racconto, il riferimento a caratteristiche forme di rapporto di lavoro: molto spesso il giovane eroe delle nostre fiabe trova impiego come “cumenenzieri”, cioé nella condizione del servitore agricolo che mangiava con la famiglia del padrone.

Sarebbe inoltre possibile descrivere, collegando i riferimenti presenti nelle varie storie, tutte le tradizionali tipologie del corteggiamento e del fidanzamento: dal complice scambio di sguardi tra la ragazza affacciata al balcone e il giovane che passa per la strada, all’incontro nell’ingresso della chiesa con la cavalleresca offerta dell’acqua santa, all’intermediazione della vecchia vicina di casa, all’incarico ai genitori o ad un parente prossimo di riferire la proposta di matrimonio. Non solo; anche le usanze collegate con la promessa di matrimonio, i preparativi più immediati (immancabilmente, si tratti di re o di umili personaggi, c’è sempre da eseguire il bando e da preparare i documenti), i festeggiamenti veri e propri, il successivo dovere delle visite vi sono segnalati con scrupolosa completezza. Ed è interessante notare, a questo proposito, la coesistenza nei racconti, a volte anche nella forma conflittuale, del matrimonio d’interesse, organizzato dai genitori per i figli, e del matrimonio d’amore, fondato sulla reciproca simpatia e sulla libertà degli sposi.

L’indagine potrebbe ancora riguardare i rapporti familiari o sociali, in primo luogo quello tipico tra compari; il ruolo e il lavoro delle donne; le tradizioni relative alle pratiche religiose; le relazioni e la reciproca percezione tra comunità vicine.

Infine, non meno interessante sarebbe l’esame dell’immaginario popolare messo in luce dai racconti: dai riferimenti e le descrizioni di luoghi geografici, in primo luogo delle città, che qui si limitano esclusivamente a Napoli, Roma e, una volta, Venezia (significativa è in un testo la collocazione del palazzo del re e della regina a Martano), alla rappresentazione della fortuna che a volte arride ai protagonisti e che si concretizza nell’acquisto di terreni e case, nell’arrivo di un carretto carico di grano, olio e legumi, o semplicemente in una sontuosa scorpacciata, per la quale null’altro riesce a pensare la nostra umile novellatrice se non “carne e maccheroni, maccheroni e carne”.

Anche un’accurata analisi linguistica potrebbe portare, soprattutto nel nostro caso, a risultati interessanti. Così, per fare un esempio relativo al possibile esame comparativo con i testi proposti in appendice, basterebbe notare la presenza nel racconto Tredicino della parola “disoccupazione”, opportunamente assimilata nel griko, per arguire la presenza in quella fiaba, rispetto alle altre, di uno strato storico nuovo e del tutto attuale.

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5. Tra la storia e l’inconscio

Rispetto agli studi relativi alla ricerca del luogo d’origine e delle vie di diffusione dei vari racconti popolari, un livello ulteriore di approfondimento teorico, che comprende e spiega anche il motivo della loro universalità, è rappresentato dall’indagine sul significato delle fiabe: lungi dall’essere strani e incomprensibili prodotti della fantasia, i vari elementi che in esse ricorrono sarebbero invece dotati di senso e rimanderebbero a precisi e investigabili contesti.

Le indagini di questo tipo si divaricano però immediatamente lungo due strade diametralmente opposte e, spesso, reciprocamente ostili. Da un lato, ci si volge ad un esame storico-genetico, in una prospettiva di ricerca ampiamente esplorata da Propp; dall’altro, partendo da premesse psicanalitiche, si interpretano le fiabe come espressioni di problemi e contenuti psichici.

Le suggestive conclusioni cui pervengono l’uno e l’altro indirizzo, peraltro abbastanza note, mi sembra arricchiscano, al di là delle divergenze, il nostro materiale folkloristico; da qui l’idea, come ho già accennato, di indicarne nelle note alcuni tratti, in riferimento ai motivi presenti nelle fiabe, e richiamarne brevemente le premesse.

Secondo Propp, un gran numero di fiabe, che ripropongono struttura, elementi e situazioni simili, trovano il loro punto di riferimento e di spiegazione in un rito antichissimo, che segnava il passaggio dall’infanzia all’età adulta, noto come rito di iniziazione. Esso si celebrava al sopraggiungere della pubertà e serviva a introdurre il giovane nella comunità della tribù come membro effettivo, col diritto di contrarre matrimonio. La cerimonia metteva riitualmente in scena la morte e la resurrezione del fanciullo, attraverso il suo inghiottimento a opera di animali favolosi dai quali successivamente veniva sputato fuori. Per la celebrazione del rito, che avveniva sempre nel folto della foresta ed era accompagnato da torture fisiche e mutilazioni (amputazione d’un dito, rottura di denti, ecc.), venivano talvolta costruite apposite case o capanne dove si praticava anche la circoncisione. Una forma di morte temporanea era anche rappresentata da un simbolico bruciamento del fanciullo (8).

Non può naturalmente non suscitare curiosità e interesse ritrovare, nelle nostre fiabe, molti degli elementi che Propp analizza nella sua opera con dovizia di dettagli e di riscontri etnologici.

Sull’altro versante, quello psicanalitico, se si eccettuano alcuni riferimenti presenti nelle opere di Freud, la proposta teoricamente più coerente e maggiormente applicata è quella fornita da Jung. Punto di partenza è, in questo caso, l’esistenza di un inconscio collettivo, così chiamato perché “non è di natura individuale, ma universale e cioé, al contrario della psiche personale, ha contenuti e comportamenti che sono gli stessi dappertutto e in tutti gli individui” (9) I suoi contenuti sono i cosiddetti “archetipi”, tipi arcaici o primigeni, immagini universali presenti fin da tempi remoti, le cui più note espressioni sono il “mito” e la “fiaba”.

Le immagini mitiche non sono per Jung, come i più hanno ritenuto, rappresentazioni di fenomeni naturali, bensì “espressioni simboliche dell’interno e inconscio dramma dell’anima il quale diventa accessibile alla coscienza umana per mezzo della proiezione, del riflesso cioé nei fenomeni naturali”. (10)

Lo stesso discorso vale per le rappresentazioni collettive costituite dalle fiabe. Così come l’inconscio personale si manifesta e rappresenta i suoi contenuti nel sogno, allo stesso modo l’inconscio collettivo produce spontaneamente e irresistibilmente nelle fiabe le immagini degli archetipi. Le fiabe sono “il sogno di un popolo” (11), sintetizza efficacemente Marie Louise von Franz, una delle più coerenti seguaci di Jung, che altrove paragona l’inconscio collettivo a un cristallo “in sé stesso uno e identico, ma capace di manifestarsi in migliaia di fiabe diverse” (12).

Le storie narrate nelle fiabe altro non sono quindi che la rappresentazione degli elementi della psiche, e in particolare del processo di individuazione, processo attraverso il quale l’individuo riesce a integrare la sfera inconscia con quella della coscienza, giungendo ad una pienezza di vita altrimenti sconosciuta.

E’ soprattutto nelle opere della von Franz che questo procedimento interpretativo viene applicato ad un gran numero di fiabe, delle quali vengono attentamente e minuziosamente esaminate non solo le storie nel loro complesso ma anche i singoli elementi compositivi.

Le risposte che le teorie richiamate forniscono risultano, a ben guardare, parziali e sembrano suggerire una reciproca integrazione. Il problema posto dallo studio delle fiabe, infatti, non riguarda solo l’origine, ma anche la ragione della loro millenaria conservazione. Ora, se in un caso viene dettagliatamente investigata la genesi storica ma resta nell’ombra il motivo della stabilità dei racconti, nell’altro, al contrario, la corrispondenza tra le fiabe e il mondo psichico dà ragione della loro permanenza in tutti i luoghi e in tutti i tempi, ma lascia nel vago la concreta genesi dei loro contenuti.

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6. Il bisogno del mondo incantato

In una delle tante parentesi presenti nel manoscritto di V. D. Palumbo sono annotate le parole di una bambina a proposito della regina bellissima con cui inizia la fiaba: “Oh, se avessi una madre così!”. La semplice e spontanea esclamazione della piccola ascoltatrice credo esemplifichi e introduca opportunamente una serie di riflessioni che Bruno Bettelheim (14) dedica allo studio delle fiabe e sulle quali vorrei brevemente soffermarmi.

Anche perché esse contengono in qualche modo una risposta alle perplessità che mi hanno accompagnato durante il lavoro e che potrei sintetizzare in alcuni interrogativi. Ha ancora senso presentare oggi delle fiabe? Al di là del loro valore documentario, possono le storie raccontate dalle nostre nonne aspirare ad un interesse ed un’attenzione più vasti? Continuano i bambini della nostra società ad essere attratti dalle fiabe?

L’opera del noto psicologo offre una difesa convincente, ragionata e appassionata delle fiabe. Anche se le fiabe, egli scrive, “hanno poco da insegnare circa le specifiche condizioni della vita nella moderna società di massa (…), esse possono essere più istruttive e rivelatrici circa i problemi interiori degli esseri umani e le giuste soluzioni alle loro difficoltà in qualsiasi società, di qualsiasi altro tipo di storie alla portata della comprensione del bambino”. (15)

L’esame interpretativo che Bettelheim svolge a proposito di un gran numero di fiabe, e che mira a cogliere di ciascuna il nucleo psicologico nascosto, giustifica abbondantemente le sue affermazioni ed eplicita alcuni fondamentali principii.

Le fiabe, anzitutto, rappresentano l’inconscio; esse sono “lo specchio magico che riflette il nostro mondo interiore” (16): i desideri, le ansie, i conflitti, che si agitano anche nel bambino, vi vengono personificati e illustrati nella maniera più semplice. Il bambino può inconsapevolmente, seguendo le avventure e le imprese dei vari protagonisti, riconoscerli e accettarli; trarne indicazioni sul modo in cui essi si possono superare; ricevere rassicurazione e fiducia dalla promessa del lieto fine che le fiabe suggeriscono.

In secondo luogo, le fiabe corrispondono alla visione egocentrica e animistica del mondo propria dei bambini e, “quale che sia la nostra età, soltanto una storia che si conformi ai principii alla base dei nostri processi di pensiero risulta convincente per noi” (17). Per i bambini non esiste separazione tra gli oggetti inanimati e gli esseri viventi e, qualunque cosa abbia vita, ha una vita simile alla nostra. Per lui quindi è perfettamente normale che l’animale parli, comprenda e senta come lui: ciò che fanno appunto gli animali delle fiabe, che guidano l’eroe nelle più ardue imprese. Il bambino può credere che il vento possa parlare e che perfino i sassi siano vivi ed “essere trasformato in sasso significa perciò semplicemente che l’essere deve restare muto e immobile per un certo tempo” (18).

In terzo luogo, le fiabe assecondano il processo di identificazione, facendo sì, ad esempio, che il bambino compensi nella fantasia tutte le sue inadeguatezze, reali o immaginarie: “egli può fantasticare di essere anche lui in grado, come l’eroe, di arrampicarsi fino al cielo, sconfiggere giganti, mutare d’aspetto, diventare la persona più forte e più bella” (19). Oppure permettendogli di superare le angosce legate ai suoi rapporti con i genitori, come la paura d’essere abbandonato, o con i fratelli, come il sentimento di inferiorità.

Infine le fiabe costituiscono, non solo per i bambini, una ricca fonte di compensazione e di evasione dal quotidiano: “Oh, se avessi una madre così!”. Aspetti, questi ultimi, abbondantemente presenti nei nostri racconti, nei quali il povero quasi sempre diventa ricco, l’onesto viene premiato, la ragazza umile e virtuosa sposa il figlio del re, il garzone o il pastorello compiono le imprese più difficili, e Menico, protagonista della Pelle di pidocchio, che “non era istruito, ma era bello”, ha la meglio sul principe concorrente; le fate alla fine provvederanno pure all’istruzione!

Sembrerebbe, in definitiva, che la fiaba abbia ancora diritto di cittadinanza nel nostro tempo e nella nostra società e che i figli delle nuove generazioni potrebbero essere aiutati, nel processo di conoscenza e costruzione di sé stessi, più che dalle rutilanti immagini della tecnologia moderna, dall’incanto semplice e coinvolgente delle storie del focolare.

Non diversamente, e paradossalmente, in piena epoca dei Lumi, mostrava di sentire Voltaire, che non temeva di contrapporre, forse con un tratto di nostalgia per un mondo che sembra corrispondere a quello ritratto nei nostri quaderni, alla “triste” ragione il “merito dell’errore”.

“Tempi felici, quelli delle fiabe, – scriveva press’a poco Voltaire, – degli spiriti buoni e familiari, dei folletti soccorrevoli! Si ascoltavano le storie meravigliose in un castello, attorno ad un ampio focolare; il padre e lo zio, la madre e la figlioletta, i vicini e tutta la famiglia prestavano orecchio ai racconti di streghe del signor elemosiniere. Banditi ormai gli spiriti e le fate, soffocati i sogni, la ragione ha consegnato i nostri cuori all’insensibilità: su tutto domina tristemente il ragionatore. Credetemi, ahimé, accanto alla verità anche l’errore ha i suoi meriti!” (20).

Note

1) R. M. DAWKINS, Modern Greek Folktales, Oxford, 1953, p. XXV.

2) Italo CALVINO, Fiabe italiane, Einaudi, 1956, p. X.

3) Giuseppe COCCHIARA, Storia del folklore in Europa, Torino, 1971,

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4) Giuseppe COCCHIARA, op. cit., p. 324.

5) Gianfranco D’ARONCO, Indice delle fiabe toscane, Firenze 1953, p. 20.

6) Sebastiano LO NIGRO, Racconti popolari siciliani. Classificazione e bibliografia, Firenze 1958, p. XV.

7) Dawkins, op. cit., p. XXV.

8) Mi riferisco, nell’ordine, alla teoria orientalista o monogenetica di T. Benfey, alla teoria poligenetica o antropologica di E. B. Tylor ed al cosiddetto metodo storico-geografico della scuola finnica, fondata da J. e K. Krohn e che annovera tra i seguaci più illustri A. Aarne e S. Thompson.

9) cfr. Vladimir Ja. PROPP, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino 1972, pp. 89-90.

10) Carl Gustav JUNG, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in Opere, vol. IX, Torino 1980, p. 3.

11) ibidem, p. 6.

12) Marie-Louise von FRANZ, L’individuazione nella fiaba, Torino 1987, p. 146.

13) Marie-Louise von FRANZ, Le fiabe interpretate, Torino 1980, p. 188.

14) Bruno BETTELHEIM, Il mondo incantato, Milano 1988.

15) Bettelheim, op. cit., p. 11.

16) ibidem, p. 296

17) ibidem, p. 48.

18) ibidem, p. 49.

19) ibidem, p. 59.

20) Il brano di Voltaire è riferito da COCCHIARA, nell’opera già citata, alle pagine 105-106.

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