Trascrizione e traduzione del griko

LA TRASCRIZIONE DEL GRIKO

 

Il compito di elaborare un sistema di codificazione semplice, corretto e comunemente accettato, che possa trasformare il griko in lingua anche scritta, è vivamente sentito dagli ultimi grecofoni salentini. Sfortunatamente non si tratta di un compito che si possa assolvere attraverso una decisione presa astrattamente da uno studioso o da un convegno di studiosi, per quanto qualificati e rappresentativi; strada pur percorsa. La codificazione nasce in questo campo, come è stato giustamente rilevato, dall’uso e dalla tradizione.

Il dovere di chi si accinge a questo lavoro consisterà dunque nel porre attenzione alle esperienze precedenti, nell’esplicitare i criteri delle sue scelte, nell’applicarle con coerenza. Si tratta di scelte che riguardano non solo la traduzione dei suoni in segni, ma anche l’interpretazione grammaticale di espressioni e fenomeni linguistici e la relativa rappresentazione.

 

Per quanto concerne i testi pubblicati in questo sito, i criteri di fondo cui mi sono attenuto sono i seguenti:

1) uso dei segni di un solo alfabeto, quello della lingua italiana;

2) massima semplicità e accessibilità delle soluzioni proposte;

3) giustificazione logica e grammaticale d’ogni soluzione;

4) uniformità nella scrittura delle parole e in generale dei testi.

 

A livello fonetico ho pertanto adottato le seguenti soluzioni per i suoni che differiscono dall’italiano o che potrebbero creare incertezze nella lettura:

 

c          suono della “c” dolce (come nell’italiano “cielo”);

k          suono della “c” dura (come nell’italiano “casa”);

ch        suono della “c” aspirata, corrispondente al greco “c”;

ddh     suono occlusivo cacuminale (come nel leccese “cavaddhu”);

z(zz)    suono sempre dolce (come nell’italiano “zero”, “rozzo”);

ts         suono duro della doppia zeta (come nell’italiano “pozzo”);

j          suono della “i” semivocalica (come nell’italiano “jeratico”).

 

Vorrei precisare, a proposito di alcuni suoni sui quali esistono maggiori divergenze, che per il suono della “c” aspirata ho preferito la soluzione “ch” rispetto all’uso del “c” greco per il criterio sopra ricordato, e rispetto all’uso della semplice “h” per evitare il condizionamento che l’assenza di suono di tale lettera nella lingua italiana potrebbe determinare.

Ho inoltre preferito “ddh” per il tipico suono cacuminale, rispetto al più scientifico “dd”, poiché tale soluzione risulta di uso più comune e abbastanza diffusa anche nella trascrizione del dialetto romanzo.

Infine, anche se non del tutto convincente, più opportuna mi è sembrata la soluzione “ts” per il suono simile alla doppia zeta di “pozzo” sia per evidenziare tale suono che per evitare anche in questo caso distorsioni conseguenti all’uso dell’italiano (es. “zero” invece di “zero” (tsero) = io so).

 

Un’ulteriore precisazione va fatta per quanto riguarda alcuni suoni che risultano scomparsi nel griko odierno ma sono presenti nei testi scritti del passato (ad esempio nei manoscritti di Vito Domenico Palumbo): in questo caso ho ritenuto di doverli conservare nella trascrizione; si tratta di “fs” (usato soprattutto come desinenza del passato; es. “ènifsa”, oggi “ènitsa”), di “ps” (es. “psomì”, oggi “tsomì”) e “ft” (es. “nifta”, oggi “nitta”).

 

A livello di rappresentazione di alcuni fenomeni grammaticali, vorrei richiamare l’attenzione sui seguenti dettagli:

 

1) ho usato l’apostrofo (‘) all’inizio o alla fine di una parola per indicare la caduta di una lettera o di una sillaba (es. fonasa’ = fonàsane; ‘ttupanu = ettupanu; ma anche ‘s = es; ‘en = den; e’ = ene);

2) ho usato l’accento circonflesso (^) per indicare la crasi, cioé la fusione di due vocali, una alla fine e l’altra all’inizio di due parole (tûpa = tu ipa; sôkame = su èkame; sûn = su in; ecc.);

3) ho usato la parola “ènna” (= echo na, col significato di “devo”), così come la scrive il Rohlfs (per cui “ènnârto” starà per “ènna erto” = devo venire);

4) ho segnato l’accento tonico su tutte le parole ad eccezione di quelle piane;

5) ho unito gli aggettivi possessivi nella forma enclitica ai nomi cui si riferiscono senza particolari segnalazioni (es. ciùrimu = mio padre).

 

È necessario infine segnalare una particolare caratteristica del griko parlato e la rappresentazione che di essa qui viene data nella scrittura. Si tratta del fenomeno dell’enfasi nella pronuncia di parole che iniziano per consonante, per cui una parola sembra avere a volte una doppia consonante iniziale. Poiché questo avviene di norma in seguito alla caduta di una consonante o di una sillaba finale nella parola che precede, per far corrispondere la lettura alla lingua parlata, occorrerebbe, ogni volta che quella caduta viene segnalata, come si è detto, dall’apostrofo, raddoppiare il suono della consonante che segue (es. sti’ tàlassa = sti’ ttàlassa). Questo accorgimento vale anche nel caso della negazione “den” che viene scritta in genere, per farla corrispondere al parlato, ’en oppure ‘e (es. ‘e telo = ‘e ttelo).

Nel parlato, anche dopo la parola “ena” (= uno) la consonante della parola che segue viene sempre raddoppiata. Nel caso di “mia” (= una) essa si raddoppia solo quando ha la funzione di complemento oggetto (es. fonazzo mia “kkiatera”, ma: èrkete mia kiatera).

 

 

 

LA TRADUZIONE

 

Non è semplice tradurre in lingua italiana i testi in griko, sia per la presenza nel griko di parole, costrutti ed espressioni idiomatiche difficilmente traducibili, sia perché una traduzione letterale (che potrebbe giustificarsi solo come guida alla decodificazione dell’originale) priva i testi di ogni scorrevolezza e attrattiva, che essi pur possiedono. Questo vale per la letteratura popolare (fiabe, racconti, poesie, nenie, ecc.), ma soprattutto per i testi d’autore. La bellezza di questi ultimi, infatti, specialmente se poetici, deriva, oltre che dal contenuto, dal suono e dal ritmo delle parole e delle frasi, che si perdono irrimediabilmente se tradotte ad litteram.

Ho ritenuto, perciò, di fornire di ogni testo una versione fedele ma non letterale. Per i racconti popolari, ad esempio, pur rispettando ogni particolare dell’originale, senza nulla togliere o aggiungere, mi sono limitato ad un lavoro di rifinitura: utilizzando a volte dei sinonimi, per evitare noiose ripetizioni, esprimendo per chiarezza il soggetto, laddove l’uso dei pronomi “questo” o “quello” poteva ingenerare confusione, limitando l’uso sovrabbondante del “disse”, che nel racconto orale ha spesso una funzione di pausa e che ho sostituito appunto con la punteggiatura, variando talvolta il nesso di coordinazione/subordinazione tra le frasi per rendere la narrazione più fluida. Con l’intenzione di dare così, per quanto possibile, una relativa autonomia ai testi in italiano, rendendoli fruibili anche per il lettore non interessato all’analisi della lingua greco-salentina.

Particolare attenzione ho dedicato alla traduzione delle poesie d’autore. Ho cercato, in questo caso, di conservare il ritmo dei vari testi e di offrire più “l’anima” che non “la lettera” delle composizioni, allargando in qualche modo l’ambito semantico delle parole grike per sopperire alla povertà di questa lingua. L’intento è stato, anche qui, di far accostare alla letteratura grika offrendo dei contenuti degni di attenzione nella forma più accattivante possibile. Chissà – mi sono detto – che per questa via non si riesca anche a suscitare curiosità e interesse verso la comprensione e la fruizione dell’originale!?

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