Fiaba 24 – Rapita dal diavolo (O kunto mo demoni)

RAPITA DAL DIAVOLO (O kunto mo demoni = Il racconto col diavolo), senza titolo nel manoscritto, raccolta da V. D. PALUMBO a Calimera il 6 febbraio 1886.

             Il motivo della ragazza rapita dal diavolo è presente anche in un’altra storia della nostra raccolta (La mula che era la Madonna). Si tratta di un tipo di racconto, come afferma CALVINO, che ne dà un esempio nelle Fiabe italiane (9), diffuso soprattutto nell’Italia settentrionale.

            Alcuni particolari presenti nel nostro testo si ritrovano in fiabe d’altri paesi; ad esempio, la proibizione di entrare in una stanza (AARNE-THOMPSON, 710) e la vista dell’Inferno attraverso un buco (AARNE-THOMPSON, 871) sono presenti in una fiaba greca della raccolta di LEGRAND Il triammatos, ossia l’orco dai tre occhi (p. 81). Anche nei GRIMM (3) c’è la proibizione di entrare in una stanza, ma stavolta a proibire è la Madonna e si tratta non già dell’Inferno ma del Paradiso.

            Questo motivo, della stanza o del ripostiglio proibiti del grande palazzo, frequente nelle fiabe, è ricondotto da PROPP alla stanza della “casa per uomini” adibita ai riti dell’iniziazione, dove erano conservati gli oggetti sacri e i simboli della divinità (p. 225 e ss.).

            Su un diverso piano interpretativo, la stanza proibita rappresenta una prova di fedeltà che il marito esige dalla moglie. Scrive BETTELHEIM: “Quando l’uomo consegna alla donna la chiave di una stanza e nello stesso tempo le raccomanda di non entrare, intende mettere alla prova la fedeltà ai suoi ordini, ovvero, in senso più ampio, a lui. Poi un uomo di questo genere finge di partire (…). Tornando inaspettatamente, trova che la sua fiducia è stata tradita. La natura del tradimento può essere indovinata in base alla punizione, che è la morte. In passato, in certe parti del mondo, soltanto una forma d’inganno da parte della donna era punibile con la morte inflitta dal marito: l’infedeltà sessuale” (p. 288).

 

 icona2             O KUNTO MO DEMONI

 

Io’ mia forà ce ìsane pente kiatere c’ena ciuri ce ‘e tus chori essu na plòsune. Depoi iche mia’ kiatereddha tosso min Ndolorata c’èblonne ma mia’ nunna, ka ‘e tes chori essu na plòsune. Mia’ forà ‘e tèlise na pai pleo na plosi mi’ nunnati, tui. Mian emera, pianni e mànati in èbbie c’i’ kopànise ‘matsae, in èkame na pai ‘mpì sto’ portuna; klèonta klèonta c’i’ pire ìpuno.

            Jaike ena’ signoron òrio panu ‘s enan ampari, c’ipe: – Eh, kiaterèddhamu, ti kannis ettù manechisu? Te’ nârti ma mena? – All’ùrtima ipe cini: – Na, steo ‘ttumpinna ka me pelèkise e mànamu, – ipe; – ce ‘vò, klèonta klèonta, me pire ìpunon -. Depoi ipe cino: – Prai, prai ma mena -. In enneke panu ‘s ena’ cèraton ampariu c’i’ pire. Vasta cèrata, ka io’ to demoni.

           Posson ei ti su leo, èftase citto palai, ‘s ena’ palai larga: – Den, – ipe, – ti ‘ttupanu ènna stasìs esù, – ipe: – na ola ta klidia, – ipe, – ce nifse ole tes kàmbare pu teli. Ma den, – ipe, – ti ‘s tuttes tri na mi’ nifsin, – ipe. – Gnornò! – ipe cini.

            Stes tris emere, ide ti ‘e torì tinò, pianni c’ènifse. Ènifse, ‘s emmia iche ena’ tiraturi: mia’ banka c’ena tiraturi. ‘Ce citto tiraturi iche mia’ kampaneddha, mia’ furceddhutsa c’ena kutalai. Èbbie itti kampaneddha ce nsìgnase na ndalisi. Pianni ènifse in addhi kàmbara c’iche mia’ fenestreddha; ecé citti fenestreddha tui kanònise c’iche o demoni pu ste c’èvaddhe fsichén ecé sto’ furno. Pianni tuo c’is èkame mia’ ceran àscimi, uso prama t’àscimo.

            “Jummena!” – ipe tui, “emena ènna belisi ‘cessu”. Pianni ènifse in addhi ce iche ena’ kamini fse cina pu vàddhome es alée. Ce ‘cì citto kamini iche mia’ skala fse sìdero. Isi skala, pàssio skaluna pu èkanne is èsirne ena’ kondili (*). Ce ‘cikau ìone o purgatorio. C’iche enan bekkiaruddhi, c’ìone o Kristò. C’ipe: – Eh, kiaterèddhamu, ettukau vresis? – ipe. – Na, ìtela na do i’ mànamu, – ipe cini. – Den, – ipe cino, – k’arte pu pais, – ipe, – arte vrai pu sianònnete cino, de ti cinon e’ to demonin, – ipe. – De ti ‘sù stasu kurria kurria, – ipe. – Depoi? – ipe cini. – Depoi se rotà tri foré, ce su lei: – Ti echi? – ipe, – ce ‘sù pe ti e’ festa sti’ Kalimera c’ìtele na pai na di. Cino su lei gnorsì. O pornò skonnesesta ce pate.

            Skòsisa ce pìrtane. Maleppena ftàsane mes ti’ Kalimera in èvale panu panu panu, sti’ punta ti’ makina, ka io’ festa ti’ Maddonna ti’ Roka, in èfike lio c’ipe: – Beh! prai na pame, – ipe. Cini èkanne: – Mènome lillìn addho, – c’este ‘cipanu. Cinù tôffie ‘flemma c’i’ pèjase, i’ Ndolorata. Epianni ce pìrtane oli e pateri ce in essianòsane. In essianòsane: – I’ pèrnome sto’ Papa? I’ pèrnome sto’ Papa? – I’ pìrane sto’ Papa c’in efsemoloìsane. In efsemoloisan, depoi ipa’: – Te’ na fai lio? – Gnornò, – ipe cini, – na ploso lio telo -. In bala’ panu sto gratti, kalefsan diu àngeli c’i’ piàkane.

            O kunto ‘e pai pleo, ena’ sordo mereteo.

 

 

                                                                                   Calimera, 6 febbraio 1886

 

* Se la trascrizione dal manoscritto (“kondili”) è esatta, si tratta di una parola della quale non ho trovato riscontri precisi: potrebbe significare, se si prende come riferimento il greco antico, “gonfiore, ampolla” oppure “pertica, sbarra”.

 

icona italiano

RAPITA DAL DIAVOLO

 

C’erano una volta un padre e cinque figlie; in casa non c’erano letti per tutti quanti, perciò la piccolina andava a dormire presso una comare. Un giorno la ragazza non volle andare a dormire dalla comare; così la madre la picchiò per bene e la cacciò fuori dal portone; a furia di piangere, la piccola s’addormentò.

Passò un bel giovane sopra un cavallo e le disse: – Ragazzina, cosa fai qui da sola? Vuoi venire con me? – Lei rispose: – Mia madre mi ha picchiata e son finita qui; poi a furia di piangere mi sono addormentata. – Vieni, vieni con me, – disse il giovane. La poggiò sopra un corno del cavallo e la portò. Aveva le corna perché era il diavolo!

In men che non si dica arrivò su di un palazzo lontano lontano: – E’ qui che dovrai startene tu, – le disse; – eccoti tutte le chiavi: puoi aprire le stanze che vuoi, ad eccezione di quelle tre. – Sissignore, – lei rispose.

Dopo tre giorni, non vedendo nessuno, andò ad aprire. Nella prima vide un cassetto, un tavolo con un cassetto; nel cassetto c’era una campanella, una forchettina ed un cucchiaino. Prese la campanella e cominciò a suonare. Poi aprì l’altra stanza e c’era una finestrella; si affacciò e vide il diavolo che metteva le anime nella fornace. Il diavolo la scrutò con un brutto ceffo.

“Ahimé, – lei pensò, – getterà dentro anche me!” Aprì la terza stanza e vi trovò un deposito simile a quello dove si mettono le ulive; dentro c’era una scala di ferro; lei scese piano piano dagli scalini e ad ogni scalino che scendeva le si sollevava una bolla. Là sotto era il purgatorio, e vide un vecchio, che era il Signore: – Oh, bambina mia, – le disse, – proprio qui sei capitata? – Volevo vedere mia madre, – lei rispose. – Ascolta, – continuò il vecchio: – quando te ne andrai e lo vedrai tornare questa sera, – sappi che lui è il diavolo – mostrati triste. – E poi? – domandò la ragazza. – Poi ti chiederà per tre volte: – Che cos’hai? – Tu rispondi che a Calimera c’è la festa e vorresti andarci. Ti risponderà di sì e la mattina, appena alzati, partirete.

Così fecero: si alzarono e partirono. Appena arrivati a Calimera, la portò sopra sopra, sulla punta dell’apparato, perché era la festa della Madonna di Roca; la fece restare un poco, poi disse: – Andiamocene -. E lei: – Restiamo ancora! – Egli perdette la pazienza e la gettò giù, la povera Addolorata. Subito s’avvicinarono tutti i preti a soccorrerla: – La portiamo dal Papa? La portiamo dal Papa? – La portarono dal Papa e la fecero confessare. Dopo che si fu confessata, le chiesero: – Vuoi mangiare qualcosa? – No, – lei rispose, – voglio solo dormire -. L’adagiarono su un letto, scesero due angeli e la presero.

Il racconto è terminato

ed io un soldo ho meritato.

 

(Calimera, 6 febbraio 1886)

 

 

 

 

 

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