Fiaba 110 – Il pecoraio mago (O kunto mo’ pekurari)

IL PECORAIO MAGO (O kunto mo’ pekurari = Il racconto col pecoraio), versione contenuta nel manoscritto anonimo di Martano.

            Questa fiaba unisce insieme due distinti motivi, che di solito compaiono in racconti diversi. Il violino (o zufolo, o liuto, o piffero, o fischietto) che fa ballare (caratteristico del tipo 592 dell’indice AARNE-THOMPSON) si trova, con risvolti abbastanza simili nello sviluppo della storia, nella fiaba greca Lo stupido e il saggio (MEGAS, I, 40), nonché in AFANASJEV (Il liuto auto-sonante, p. 211) e nella raccolta dei GRIMM (110).

            Il motivo dei diavoli ficcati nel sacco e portati dal fabbro per farli pestare compare in uno dei Testi neogreci di Calabria (Roccaforte, 29) e nella fiaba Il buontempone dei fratelli GRIMM (81).

            Il pratagonista di questo racconto potrebbe esser considerato come esemplare di una figura che compare spesso nelle fiabe: quella dell’apparente stupido, in realtà un “briccone” ingegnoso e simpatico, che ha come prototipo mitologico Ermes, che ancora in fasce ruba le mucche ad Apollo.

            In un breve saggio del 1954, Psicologia della figura del briccone, Jung sostiene che in questa figura si esprime una nostra struttura psichica archetipica, che risale a tempi remoti e che riproduce una coscienza umana indifferenziata, dove sono uniti insieme divino e animale e la cui caratteristica predominante è l’incoscienza (cfr. pp. 247-264).

O KUNTO MO’ PEKURARI

 

scvrivano rimpicciolito       Mia forà iche a’ pikurari c’èvleve ta pròata. Uso pikurari io’ magari. Ediavike ena m’a’ ciùccio fortomeno anghia. Entàlise to’ fiskietto, c’ensìgnase na choressi o ciùccio. O padruna èdrame apompì c’ensigna nô pi: – Citto, na min entalisi o’ fiskietto, k’andé mu klanni ola t’anghia -. Cio ‘en èkanne kanea kaso; u tôklase ola. Epirte ce tôkame querella.

            O’ fònase o giùdiko: – Ti tôkame tunù? – ipe. – Tìpoti: evò èstinna pu èvleva ta pròata es to’ largo. – Arte, – ipe o giùdiko, – motti èrkese fonammeno, ènnârtis ettupao. – Sì, – ipe cio, ce pirte àpote. U pirte o chartì na presenteftì. Epirte m’a vuja ce m’a pròata, èmine apà’ sto’ largo. O giùdiko atti’ finestra on ide ka este ‘cipao sto’ largo. Ensìgnase nântalisi o’ fiskietto, ensignàsane na chorèssone a vuja ce a pròata. O giùdiko ta kanoni ka cio entali o’ fiskietto ce chorèane a vuja ce a pròata.

            O’ fònase: – Dela ettù pao! – Endèvike, epresentefti cio mo’ ciùccio pu tôklase ola t’anghia. Ipe: – Pos pai faccenda pu sôklase ola t’anghia? Entali o’ fiskietto ce ìstinne kùkkia es esà? – Ìstike es to’ largo, – ipe cio. – Efseri ti kae? – ipe: – Mìnone a’ punto ka mûrte na cheso -. Tuo ensìgnase n’antalisi o’ fiskietto: cio ichore m’olo to’ kàntaro kammeno. – Citto, – u tûpe u pekurari o giùdiko, – na min entalisi pleo k’andé mu mbènnune e graste es to’ kolo -. Estasi citto, ce pirte àpote.

            Prai prai, io’ scimona c’èkanne mali fsichra. Ide mia’ làmmia ecessu ‘s a korafi; epirte ce in ide aneftì, embike ecessu: iche fsila, iche ciminea; èbike a’ fortì, tôlise c’èbike mian òria bratsata, ènafse lumera na termani. Etèrmane. Motti iche kàonta mali brogia, ekusti ena’ apu panu ti’ ciminea, ce ipe: – Ekalèome o eskioppèome? – Evasta a’ sakko, ton èbike es ta cheria, iso sakko ìbbie mo’ komando. Erespùndefse mapale: – Ekalèome o skioppèome? – Skioppefta! – Eskioppefti apas ti’ lumera, c’esparpàgliese i’ lumera.

            Ènifse to’ sakko: – St’ònoma tu Kristù, emba es to’ sakko! – On èdese, to’ sakko, ènafse lumera matapale; ekusti t’addho: – Ekalèome o errendèome? – Rendeftu, st’ònoma tu Kristù! – Errendèftisa afse cia dekatria demògnia. Etenni o’ sakko siftò, o’ fortonni es to’ nomo, c’ensìgnase na pratisi.

            Èftase a’ paisi; epai ambrò ‘s a’ ferrari; iso ferrari iche mia’ fortsa mali afse gheno. Ipe: – Posso ènna su doko na mu ddhitsefsi tutto sakko? – Dòdeka petse -. Tôbike to’ sakko ce tôvale es tin lumera, tôkame olo rotinò; epiàkane oles matse afse sidero; on èvale apas tin ankùdika c’ensignàsane na dòkune oli ecipanu citto’ sakko. Cio ‘n enderìtsese mai, olin emera dìonta mes matse: echàsane i’ chari.

            Ìpane: – Tuo ‘en enderitsei mai; arte epèzome es chartia: an esù esiri, evò su dio eftà petse; an de’ to siri, ‘e su dio tìpoti; ce ma patto, n’u kate addhi mia’ termammata cinù sakko. – Sì, – ipe o ferrari. Ipèsane, ce in èsire o padrùnato. Èmine prikò o ferrari, ma tossi fatia pu kàmane ‘en icha’ tìpiti. Ipe: – Arte kama na dume ti echi ecé sto’ sakko ka ‘e ton enderitsèome mai -. Èbike c’èlise to’ sakko, c’ensignàsane nâguone ecé sto’ sakko ola nomena. Iche cius artù ecisimà: ensignàsane nâguone apò ecessu to’ sakko ce rìftane olu ecimesa.

            Èbike c’epirte àpote, c’èsire ecì sti’ làmmia pu ta iche: “Ènna pao na dume a’ kustune mapale”. Ènafse lumera; dopo èkanne brogia, ekusti ena’ apanu: – Ekalèome o eskioppèome? – O sakko ton vastò, – ipe cio, – na se valo ecessu. – ‘En eskioppèome makà, ka ‘vò ime demoni, c’esù ise Salavano.

 

                                                           manoscritto anonimo di Martano

 

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IL PECORAIO MAGO

 

C’era una volta un pecoraio che guardava le pecore. Quel pecoraio era un mago. Passò un tale con un asino carico di vasi di creta. Il pecoraio suonò il fischietto e l’asino cominciò a ballare. Il padrone gli corse dietro e cominciò a dire: – Zitto, non suonare il fischietto, altrimenti mi romperai tutti i vasi -. L’altro non ci fece caso e finì tutto in frantumi. Il malcapitato sporse querela.

Il giudice chiamò il pecoraio: – Che cosa hai fatto a quest’uomo? – chiese. – Niente; stavo lontano a guardar le pecore. – Ora, – disse il giudice, – quando verrai chiamato, devi presentarti qui. – Va bene, – rispose il pecoraio, e se ne andò. Gli arrivò l’ingiunzione di presentarsi. Venne con i buoi e le pecore e si fermò un po’ distante. Il giudice vide dalla finestra che quello stava lì; s’era messo a suonare il fischietto e i buoi e le pecore ballavano. Il giudice osservava come il pecoraio suonava il fischietto e i buoi e le pecore ballavano.

Lo chiamò: – Vieni qui -. Il pecoraio salì. Si presentò il tale dell’asino cui aveva rotto i vasi. Il giudice domandò: – Come è andata la faccenda dei vasi rotti? Suonava il fischietto e vi stava vicino? – Stava lontano, – rispose l’altro. – Sapete una cosa? – disse il giudice: – aspettate un momento, perché m’è venuto un bisogno urgente -. Il pecoraio si mise a suonare il fischietto e il poveretto ballava seduto sul cantero. – Smettila, – gli disse il giudice, – non suonare più, altrimenti mi si ficcheranno i cocci nel sedere -. Smise e se ne andò.

Cammina cammina, – era inverno e faceva un gran freddo – scorse una casupola in una campagna; vi si diresse; la trovò aperta ed entrò; c’era legna, c’era il camino; prese una fascina, la slegò, tolse una manciata di sterpi e accese il fuoco per riscaldarsi. Si scaldò. Quando s’era fatta una bella brace, si udì una voce da sopra il camino: – Scendo o mi butto? – Il pecoraio aveva un sacco fatato e lo prese tra le mani. La voce disse di nuovo: – Scendo o mi butto? – Buttati! – Si buttò sul fuoco e lo sparpagliò.

L’altro aprì il sacco: – Nel nome del Signore, entra nel sacco! – Legò il sacco e accese un’altra volta il fuoco. Si udì l’altro: – Scendo o mi butto? – Arrenditi, nel nome del Signore! – Si arresero tredici di quei diavoli. Legò il sacco ben stretto, lo caricò sulle spalle e s’incamminò.

Raggiunse il paese e si diresse dal fabbro; questi aveva una gran quantità di lavoranti. Il pecoraio disse: – Quanto vuoi per raddrizzarmi questo sacco? – Dodici monete -. Il fabbro prese il sacco, lo mise sul fuoco e lo arroventò per bene; poi presero le mazze di ferro, poggiarono il sacco sopra l’incudine e cominciarono a battere tutti insieme; non si raddrizzava mai; batterono tutto il giorno con le mazze e alla fine persero la pazienza.

Dissero: – Questo non si raddrizza mai. – Adesso giochiamo a carte, – propose il pecoraio: – se vinci tu, ti darò sette monete; se non vinci, non ti darò niente; e per di più farete prendere un’altra vampata al sacco. – D’accordo, – rispose il fabbro. Giocarono e vinse il pecoraio. Il fabbro restò deluso: con tutta quella fatica non avevano ottenuto niente. Dissero: – Adesso facci vedere cosa c’è nel sacco che non riusciamo mai a raddrizzare -. Slegò il sacco e cominciarono a uscire i diavoli tutti insieme. I lavoranti stavano in piedi lì vicino; i diavoli uscivano dal sacco e li gettavano tutti per terra.

Se ne andò via e tornò di nuovo alla casupola dove c’erano i diavoli: “Vado a vedere se si fanno sentire ancora!” Accese il fuoco; quando restò soltanto la brace, s’udì uno da sopra: – Scendo o mi butto? – Il sacco è pronto, – rispose il pecoraio, – per ficcarti dentro. – Allora meglio non buttarmi; perché io sono un diavolo, ma tu sei Salivano.

 

dal manoscritto anonimo di Martano

 

 

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