Fiaba 112 (Appendice) – Cazzottina (O kunto mi’ Katsottina)

APPENDICE

            L’idea di inserire nella raccolta alcune narrazioni attuali di fiabe è sorta dalla presenza nei quaderni del Palumbo di un breve schema del racconto Cazzottina, storia che ricordavo di aver ascoltato e che mi son fatto ripetere.

            Mi è parso anche interessante, sotto il profilo linguistico, offrire la possibilità di un esame comparativo, a livello diacronico, dell’uso del griko, a un secolo di distanza dalla registrazione degli altri testi. A Cazzottina si sono così aggiunti altri tre racconti: Il Papa Gregorio, per il motivo spiegato in nota, e infine La principessa e il drago e Tredicino, fiabe che ho ascoltato spesso nella mia infanzia e così diffuse che mi è parso singolare non trovarle nel manoscritto.

 

CAZZOTTINA (O kunto mi’ Katsottina = Il racconto con Cazzottina), registrata da me a Calimera, il 19 marzo 1998, dalla voce di mia madre.

            Il remoto precedente dell’indovinello della Sfinge risolto da Edipo viene richiamato da questa fiaba, appartenente al tipo 851 dell’indice AARNE-THOMPSON e diffusa universalmente. Racconti molto vicini alla nostra versione sono presenti in LA SORSA, che riporta una fiaba di Acquaviva (Vol, II, Serie IV, 1), in CALVINO (62), nei GRIMM (22), in AFANASJEV (p. 63).

            LEGRAND, che definisce il motivo della soluzione di enigmi un tratto molto comune della favolistica greca, riporta un esempio nella fiaba La principessa e il pastore (p. 38). Altre versioni greche sono contenute in MEGAS (II, 36) e in LOUKATOS (p. 172).

            Particolarmente somigliante al nostro testo è l’indovinello contenuto in una delle versioni siciliane riferite da LO NIGRO (pp. 178-179), che riporto: “Mia madre ammazzò me; / io ammazzai Titta (il cane); / Titta ammazzò due (i corvi); / i due ammazzarono quattro (i ladri); / uno (il fucile) ammazzò tre (la lepre e i leprottini); / sparai contro chi vidi (il coniglio) e uccisi chi non vidi (la lepre); / ne mangiai due (i leprotti) arrostiti con le parole (i fogli del messale) e bevvi acqua che non sta né in cielo né in terra (nella pila benedetta)”.

 

O KUNTO MI’ KATSOTTINA

 

scvrivano rimpicciolito       Iche mia’ forà ena’ ria ce doke ena’ bando: is pu lei ena’ ndovineddhi is kiatèramu ce ‘e to ndovinei makà in ermazi. Allora ntsignasa’ na pane ole e persone atto’ ràngotti: prìncipu, duka; tui este kammeni ce olu tus embeste; vasta u’ libru ce olu mbeste, ittu ndovinellu pu i’ lèane. Eh, dopu diaika’ poddhi, tispo in èrmaze ka us embeste olu.

            Allora ‘s ena’ paisi ‘cisimà, lio’ larga, iche ena’ giovanotto ka tômase ce is ipe i’ mana: – Mamma, kàmemu mia’ fukatsa ce mia’ pùccia ka evò ènna pao n’is po ena’ ndovineddhi is principessa. – Eh, pedàimmu, – ipe, – ka dopu pain esù ecì se sfazun, – ipe; – jatì ènna pai? Mi’ pai pùpeti. – Ènna pao, – ipe. – Allora, va bene; se ‘kkuntenteo -. U tôkame mia’ fukatsa, u tôkame mia’ pùccia, però sto pensièritti ipe: “Prima n’on esfatsu’ cini, arte on enveleneo ce peseni sti’ stra’. ‘E mu piacei n’on esfatsune -. Allora u tôvale veleno.

            Allora tuo ‘e tûtsere: èbbie a visàccia, èvale itti’ fukatsa, èvale itti’ pùccia, èbbie i’ skiuppetta, èbbie o sciddhutsai ce ntsìgnase na pratisi. Prai prai, prai prai, estàsane ‘s ena’ topo ce fèrmetse, ipe: – Beh, ste mas pinai, – mo sciddhutsai – arte trome lio, depoi mapale piànnome i’ stra’ -. Allora kaìsane, èguale itti’ fukatsa, u doke prima mia’ stotsa tu sciddhutsai. Iso sciddhutsai, dopu efe lio, pèsane: – Ah, – ipe, – mûn èkame e mànamu! – Ma cino ‘en efe makà. Dopu iso sciddhutsai pèsane, mentre este kammeno, ‘kkatèkane tria pikuja ce ntsignasa’ na pitsulìsune itto sciddhutsai. Isa tria pikuja pesànane. Dopu cina, ‘kkatèkane ‘ttà addha ce ntsignàsane na pitsulìsune itta tria; pesana’ puru cina: – Mah, mûn èkame kalì pròbbio e mànamu! – Allora tuo ipe: – Mah, emena ste me pinai -. Èbbie èguale i’ skiuppetta, ide ka stin aria ka ste petà ena’ pikuli, èbbie n’u sparetsi u pikuli; mbece na sparetsi u pikuli, èsfatse mian alipuna ka ‘e tin iche donta makà. Dopu sfai isi alipuna, ntsignasa’ nâgune a ‘lipunàcia ecé sti’ pantsa, ka ìbbie èdimi: – Mah, – ipe, – ettù itta ‘lipunàcia a sozo fai -. Vasta ena’ giornali, ènatse lumera ce èttise itta ‘lipunàcia ce ntsìgnase na fai. Dopu efe, ka kòrdose, ipe: – Beh, arte riprendeo manechommu, – ka o maro sciddhutsai iche pesànonta, – o’ kammino na pao.

            Allora, mentre pràise kamposso, ide enan àrgulo tse mila: – Mah, – ipe, – pame kalà -. ‘Nneke panu citton àrgulo tse mila ce ntsìgnase na fai mila. Dopu u pai ammai kau ston àrgulo c’ide, ìvrike mian òria valige: – Mah, – ipe. ‘Kkateke, in ènitse, ce este gomai sordu: – Pame kalà, – ipe. Èbbie ittin valige ce ntsìgnase na pratisi: – Arte, – ipe, – i’ sozo pari ma mena? Pu i’ finno? – Mentre ele iu, nkòntretse ena’ kampusantu; ipe: – Ettù pesammenu echi, ‘e mû piannu’ mai; dopu jurizo, i’ pianno -. Dopu pràise lio, ipe: – Beh, arte jurizo n’i’ piao, – ipe, – mi’ sia, – ipe, – daveru pai diaenni tispos addho ce mû pianni -. Dopu pirte, u tin icha’ pianta: – Mah, – ipe, – èmina sentsa. Mah, – ipe, – evò ènna pao o stesso.

            Allora pràise, pràise, pràise, èstase citto paisi ka iche itto’ ria. Allora, dopu èstase ecisimà, on ida’ m’itta visàccia, fortomeno; ‘e telusa’ n’o’ kamu’ nâmbi, jatì ‘en io’ personaggio nâmbi ecessu sti’ korte. Sia, tuo ntsìgnase na stroleketsi, ipe: – O ria doke itto’ bando ce evò echo on diritto nâmbo. – Va bene. – O’ kama’ nâmbi. Allora, dopu èstase sti’ kàmbara ka iche i’ principessa, ipe: – Evò ènna su po ena’ ndovineddhi. – Mah, pronta! – Allora ntìgnase o ndovineddhi, ce ntsìgnase n’is pi: – Mia’ mamma voleva ammazzare me; io ammazzai Cazzottina; Cazzottina ammazzò tre; tre ammazzarono sette; sparai a ci vitti, ma ccosi ci non vitti; e mangiai carne creata che non era nata, e cucinata culle parole; era dolce lu fruttu, ma era chiù dolce la terricata; de li morti me ngannai, alli vivi me trovai -. Eh, e mara regina, principessa, eh, magari ka melètise libru, ‘e ton endovìnetse mai itto ndovineddhi. Io’ kostretta ka iche n’on ermasi; ce on èrmase. Dopu on èrmase, o’ pire sti’ korte, ce stàsisa kalì kuttenti.

                                   Ce is pu teli na pai n’u di,

                                   pai sti’ Romi ce us torì.

 

                                                           Biagia Palma (Calimera, 19 marzo 1998)

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CAZZOTTINA

 

C’era una volta un re che fece fare un bando: “Chi proporrà a mia figlia un indovinello che lei non saprà risolvere avrà la sua mano”. Allora cominciarono a presentarsi tutti i giovani del suo rango: principi, duchi; lei stava seduta lì e indovinava sempre; aveva i libri e risolveva ogni indovinello che le ponessero.

C’era in un paese vicino, poco distante, un giovane che l’aveva saputo e disse alla madre: – Mamma, preparami una focaccia e una pagnotta perché io devo andare a porre un indovinello alla principessa. – Uh, figlio mio, – rispose la madre, – quando andrai lì ti uccideranno. Perché ci vuoi andare? Non andare da nessuna parte. – Io devo andare, – disse. – Allora, va bene. Ti accontento -. Gli preparò una focaccia, gli preparò una pagnotta, ma dentro di sé disse: “Prima che lo ammazzino gli altri, ora gli metto del veleno e così morirà per strada. Non voglio che venga ucciso”. Così gli mise il veleno.

Il giovane non ne sapeva nulla: prese le bisacce, ci mise dentro la focaccia, la pagnotta, prese con sé il fucile, un cagnolino, e si mise in cammino. Cammina cammina, cammina cammina, arrivò a un punto e si fermò; disse al cagnolino: – Beh, io ho fame; adesso mangiamo un po’ e poi ci rimettiamo in strada -. Allora si sedettero, egli tirò fuori la focaccia e diede prima un pezzo al cane. Il cagnolino ne mangiò un po’ e subito morì: “Ah, – pensò il giovane – me l’ha fatta, mia madre!” Ma egli non mangiò.

Dopo che il cane era morto, mentre il giovane se ne stava lì seduto, scesero giù tre uccelli e cominciarono a beccare il cagnolino. I tre uccelli morirono. Dopo di loro, scesero altri sette e si misero a beccare quei tre; morirono anch’essi: “Mah, voleva conciarmi proprio per le feste, mia madre! – pensò il giovane: – Però io ho proprio fame”. Allora tirò fuori il fucile, vide un uccello che volava per aria e prese a sparargli; ma, invece di colpire l’uccello, colpì una volpe che non aveva visto. Uccisa la volpe, cominciarono a uscir fuori dalla pancia i volpacchiotti, ché essa era gravida: “Beh, – disse – questi volpacchiotti me li posso mangiare”. Aveva con sé un giornale: accese il fuoco, arrostì i volpacchiotti e si mise a mangiare. Mangiò, si saziò e disse: “Ora posso riprendere il cammino da solo”, perché il povero cane era morto.

Dopo aver camminato parecchio, vide un albero di mele: “Mi sta andando proprio bene”, disse. Salì sull’albero e cominciò a mangiare mele. A un tratto gli capitò di guardare ai piedi dell’albero e vide, trovò una bella valigia: “Mah!”, disse. Scese, l’aprì, ed era piena di soldi: “Mi va proprio bene!”, disse. Prese la valigia e si rimise in cammino: “Non posso certo portarla con me, questa! – disse: – dove la lascerò?”. Mentre diceva così, incontrò un cimitero: “Qui ci stanno solo morti, – pensò – non me la prenderanno di certo; al mio ritorno, la prenderò”. Camminò ancora un po’ e disse: “Forse è meglio tornare a prenderla; non si sa mai, potrebbe passare qualcun altro e trafugarla”. Quando tornò, però, l’avevano già portata via: “Ecco che l’ho perduta! – disse: – ma andrò avanti ugualmente”.

Cammina cammina cammina, arrivò dunque nel paese dove c’era il re. Quando fu vicino, a vederlo così carico, con le bisacce, non volevano farlo entrare: non era persona che si potesse presentare a corte. Egli si mise a protestare: – Il re ha fatto fare questo bando ed io ho il diritto di entrare. – Va bene -. Lo fecero entrare. Giunto nella stanza della principessa, disse: – Io ti devo proporre un indovinello. – Eccomi, son pronta! – Il giovane cominciò allora con l’indovinello e si mise a dire:

“Mia madre voleva uccidere me;

io uccisi Cazzottina;

Cazzottina uccise tre;

tre ammazzarono sette;

sparai a chi vidi e colpii chi non vidi;

mangiai carne creata che non era nata,

cucinata con le parole;

dolce era il frutto, più dolce quel ch’era a terra;

dai morti fui ingannato, ai vivi sono arrivato”.

La povera regina, allora, la principessa – magari a consultar libri! – non riuscì mai a risolvere quell’indovinello. Fu costretta a sposarlo; lo sposò, poi lo portò a corte, e vissero contenti.

Chi non ci crede e vuole controllare

vada a Roma e li potrà trovare.

 

dal racconto di Biagia Palma (Calimera, 19 marzo 1998)

 

 

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